Esattamente 30 anni fa ci lasciava Massimo Urbani, un magnifico musicista che ad oggi continuo a considerare uno dei migliori sassofonisti del ricco panorama jazzistico italiano. Per chi non lo conoscesse, spero che questo breve pezzo sia lo stimolo per cercare i suoi dischi … sono certo che sarà una gran bella scoperta!
Vorrei evitare di raccontare la sua storia, fornendo quelle informazioni anagrafiche che tutti possono facilmente trovare sulla rete o su alcuni libri (come ad esempio quello di Carola De Scipio “Vita, Morte e Musica di Massimo Urbani†del 1999): sono sicuramente importanti da conoscere ma vorrei raccontarvi il mio Massimo Urbani e quali sono le fonti che, a mio parere, raccontano meglio il personaggio e la sua musica con un approccio quasi storiografico.
Nonostante sia morto giovanissimo, a 36 anni, ci ha lasciato molto per comprendere appieno la sua musica. Per quanto mi riguarda le due fonti principali sono un film ed un disco: si tratta di “Massimo Urbani nella Fabbrica Abbandonataâ€, un video documentario, e l’album “The Blessingâ€.
Il video di circa 40 minuti, realizzato con la regia di Paolo Colangeli, è facilmente reperibile su YouTube.
Si susseguono varie sequenze montate utilizzando opere d’arte murali, riprese nell’ex pastificio Pantanella sulla Casilina con Urbani che suona in solitario, fotografie, concerti d’archivio, scorci di Roma, interviste al musicista e a chi gli è stato vicino. Dal video a mio parere emergono soprattutto la maturità artistica e in contrapposizione la debolezza caratteriale del giovane sassofonista. Dal punto di vista musicale infatti siamo di fronte ad un artista geniale, completo che ha assorbito le lezioni dei grandi personaggi del jazz che ha ascoltato e studiato sin da ragazzo (mi riferisco soprattutto a Johnny Griffin, Phil Woods, Charlie Parker, Albert Ayler e John Coltrane); sono evidenti anche le tracce dei maestri con i quali ha collaborato (come Giorgio Gaslini, Enrico Rava, Chet Baker, Steve Grossman per citarne solo alcuni) e che gli hanno permesso di costruire uno stile ed un fraseggio del tutto personali e poter passare in modo disinvolto dal be-bop al free. Da una parte quindi un musicista baciato dalla fortuna per aver potuto suonare fin da ragazzino sui più importanti palcoscenici jazz del mondo (New York, Nizza, …) e dall’altra un introverso e debole ragazzo di borgata affascinato ed allo stesso tempo vittima della droga: da questo mix però nascono sonorità ammalianti su rivisitazione di standard (bellissimo Estate di Bruno Martino) o pezzi originali (dedica magnifica a Charlie Parker in Blues for Bird).
Molta la musica reperibile sul mercato che testimonia spesso la presenza di Massimo Urbani ai mille festival italiani, più o meno importanti, ed altre volte veri e propri progetti discografici. Tra questi il mio preferito è The Blessing del 1993, l’anno della sua morte (edito dalla emerita Red Records). Registrato con alcuni dei suoi compagni d’avventura come Danilo Rea (pianoforte), Giovanni Tommaso (basso) e Roberto Gatto (batteria) e suo fratello Maurizio (sax tenore) in un paio di pezzi e con il titolo che aveva scelto ma che non potrà mai vedere sulla copertina del disco. Registrato a Roma nel febbraio del 93, è la testimonianza dell’apice dell’espressività di Massimo Urbani. Da ascoltare tutto, con attenzione, rispetto e moltissimo piacere: ci mostra un Urbani ispiratissimo, a suo agio con i compagni d’avventura, e ci propone alcuni pezzi originali suoi o di Gatto e Tommaso, alcuni standard di Bob Haggart (What’s New), di Matt Dennis (Everything happens to me, The Way you look tonight) e My Little Suede Shoes del suo amato Charlie Parker. Un disco veramente godibilissimo con Massimo Urbani rilassato ed al massimo delle sue capacità .
Certo il mercato musicale è strano, ancor di più quello del jazz… dimentica velocemente, apprezza solo a posteriori… io riascolto spesso i dischi di Massimo Urbani e continuo a pensare che sia stato veramente un grande interprete della musica jazz.
Riscopriamolo!
La notizia della scomparsa di David Crosby mi arriva proprio quando stavo terminando la scrittura del pezzo BEST 2022, l’articolo che pubblico usualmente su queste pagine con la scelta del mio miglior disco dell’anno appena chiusosi: in questo caso la scelta era caduta su Live at Capitol Theatre proprio di David Crosby & The Lighthouse Band.
Qualche mese fa David Crosby aveva annunciato l’addio ai concerti con l’intenzione però di continuare a far musica fino a quando avesse potuto: questo disco, suo malgrado, rappresenta un testamento confermando la sua profondità come autore e musicista ma anche come artista che non ha mai, fino all’ultimo, rinunciato a produrre musica di altissima qualità . Sono convinto, comunque, che conoscere tutta la sua produzione sia importantissimo per apprezzare la musica rock alla quale il nostro ha dato un contributo fondamentale.
Concluso l’opening act, viene annunciato l’arrivo sul palco di Anders Osborne che si presenta da solo con la sua chitarra e le sue armoniche; tipo simpatico, intrattiene il pubblico mentre si prepara, sottolinea che la serata è più calda di una tipica serata in Louisiana, litiga con la tracolla della sua chitarra che in realtà è una semplice corda bianca e scambia qualche battuta con un strana e sempre sorridente (forse meglio dire sonoramente sghignazzante) tipa americana che poi scopriamo aver prenotato il biglietto per la serata direttamente da New Orleans.
Nato in Svezia ma trasferitosi successivamente negli USA, Anders Osborne è noto come “il poeta laureato della Louisiana†proprio per sottolineare la sua ampia cultura e capacità di scrittura; tali doti, assieme al suono della sua chitarra, sono alla base di canzoni intense, legate alla tradizione che riescono a fondere root music, folk e blues tanto da far meritare al nostro parecchi premi. La sua carriera musicale inizia nel 1995 e da quell’anno si susseguono molti concerti negli Stati Uniti e conseguenti contratti con case discografiche dalla crescente importanza partendo dalla Okeh Records per passare a Shanakie Entertainment, PolyGram, Universal, Alligator e molte altre. Il suo legame con New Orleans è strettissimo e si coglie chiaramente nei suoi ultimi lavori: Flower Box (2016), Buddha & The Blues (2019) e Orpheus and the Mermaids (2021). Da questi album sono tratte la maggior parte dei brani presentati nella serata. Veramente interessanti Born to Die Together con ritmo quasi raggae, It Can’t Hurt you Anymore dove sono presenti sonorità alla Neil Young, Pass on by triste e compassata, Jacksonville to Wichita che potrebbe essere uscita dalla penna del miglior Jackson Browne. Da tutte le canzoni traspare grande cultura musicale, padronanza assoluta del contesto sostenuto con solo canto e chitarra, grande capacità di scrittura.
La serata si chiude con un paio di pezzi accompagnati dai Superdownhome con i quali è evidente una completa sintonia.
Anche quest’anno grande musica sul palco del Sestri Levante Blues & Soul Festival.
Anche quest’anno si ripete la tradizione del Sestri Levante Blues & Soul Festival, tradizione a cui siamo abituati ormai da oltre 30 anni; sembra una macchina ormai avviata e che proceda autonomamente ma in realtà dietro all’organizzazione dell’evento c’è un grande lavoro, svolto con passione e professionalità : in particolare di Gabriele Dellepiane (direzione artistica), di Luigi Di Lorenzo (patron storico) con il supporto dell’amministrazione locale (Comune e MediaTerraneo Servizi), della Italian Blues Union e di alcuni sponsor. L’apertura della serata è in carico a Cek & The Stompers un trio mininale basato su washboard (Annalisa Favero), contrabbasso (Alessandra Cecala) ed il titolare Cek Franceschetti alle chitarre e voce. Cek è un personaggio singolare, proveniente da un paesotto sul Lago d’Iseo che riesce bene a calarsi nel ruolo del bluesman, amalgamando le umide ambientazioni lacustri con quelle paludose della Lousiana. Ha maturato il suo particolare sound e capacità di scrittura attraverso moltissime collaborazioni e concerti in giro per gli Stati Uniti dove ha condiviso il palco per anni con Lousiana Red, il grande bluesman dell’Alabama noto per la sua canzone “Sweet Blood Call” scomparso una decina di anni fa.
Recentemente ha pubblicato un nuovo album “Sarneghera Stomp” ispirato alle tipiche e violente tempeste di lago (sarneghera) metafora del recente sconvolgimento dettato dalla pandemia.
Cek sul palco è spontaneo, suona con perizia la sua chitarra resofonica e canta come fosse in un bar di New Orleans aiutato dalla torrida serata di Sestri Levante; suono e canzoni semplici supportate da washboard e contrabbasso ma autentiche, polverose, che arrivano al cuore, come devono essere le canzoni blues: Chicks And Wine, Home Lake Blues e Maybe Tomorrow sono forse le migliori canzoni della serata comunque veramente interessante e ben accolta dal pubblico.
Lo spettacolo continua con la Andy J Forest Band: Andy sale sul palco con il suo panama in testa e per presentarsi fa una giratina tra la gente suonando l’armonica; risalito sul palco, saluta in italiano e comincia a suonare al fianco del chitarrista Leo Ghiringhelli, del bassista Andrea Caggiari e del batterista Pablo Leoni.
Andy J Forest è un virtuoso dell’armonica che da molti anni gira il mondo, pubblica dischi e saltuariamente è prestato al cinema ed alla televisione. Viene da New Orleans e le influenze cajun, soul, rock sono evidentissime nel suo blues fatto di grandi canzoni, una bella voce, evidenti capacità musicali e sicuramente un modo naturale di stare sul palco e coinvolgere le persone. Completano il quadro della sua personalità musicale le importanti collaborazioni con Willi De Ville, Taj Mahal, James Cotton e moltissimi altri anche in Italia come Zucchero, Bennato e Finardi. Molte le canzoni provenienti dai suoi ultimi lavori come NoTown Story del 2010 e Real Stories del 2007 con il quale ha vinto il premio Best Blues CD al “the Best of the Beat Award†di New Orleans. Bellissime e coinvolgenti le canzoni Breach in the Leeve (che rammenta alcuni tragici momenti dell’uragano Katrina), Crazy Legs (con grande assolo con armonica), Voodoo Lips (ballata ritmica del sud) e The Moon of June (sonorità alla Cab Calloway).
Grande serata di blues, grande serata di musica nella calda estate di Sestri Levante.
È il momento del collegamento con Paul Reddick e Tony D. dal Canada: i due raccontano del loro amore per l’Italia (Tony è originario dell’Abruzzo) e della partecipazione al progetto: presentano infatti subito il pezzo One More Day realizzato con The Gamblers, in rappresentanza della Liguria, attraverso una clip che vede i musicisti suonare a distanza con intramezzate immagini degli amici liguri.
La band è affiatatissima, tutti professionisti, esperti e studiosi dei loro strumenti, amici: rompe il ghiaccio con la dirompente Alt! per poi passare alla genovese Sciorbì/Sciuscià ; per presentare We’re still around, Bonfanti ricorda Piero De Luca, l’amico recentemente scomparso, con il quale ha condiviso la prima esperienza musicale da professionista con la band Big Fat Mama; seguono I can’t find myself e Where do we go (così comincia un discorso di Martin Luther King? un caso…) che raccontano dei misteri della vita e delle domande che tutti ci facciamo senza trovare risposte. Qui finiscono i brani da Elastic Blues, degnamente rappresentato e promosso. Bonfanti continua a chiacchierare con il pubblico e vuole ricordare la tragedia (omicidio, a sua detta) del Ponte Morandi (lui genovese, vissuto proprio nel quartiere sotto il ponte) con il brano Over’s Under scritto qualche tempo fa con Martino Coppo: il brano inizia con agghiaccianti rumori creati ad arte dal basso di Bruno e prosegue come una malinconica ballata blues. E’ tempo di omaggiare due idoli di Bonfanti come Bob Dylan (con Absolutely Sweet Marie) ed i Rolling Stones (con Exile on Main Street) per avviarci alla fine. Magnifica serata di grande musica di cui tutti abbiamo bisogno, ora più che mai, nella cornice di una perfetta organizzazione - persone, luogo, tempi, suono - non comune.
Solito giochino di fine anno per mettere insieme gli ascolti e suggerire qualcosa da ascoltare. E’ anche un modo per sublimare (o esorcizzare) l’anno: qualcosa di buono ci sarà pure stato….
1 - CHRIS STAPLETON - STARTING OVER
E’ ormai una stella di prima grandezza, e lo si immaginava, ma questo nuovo album di CHRIS STAPLETON (che in fin dei conti è solo il terzo della sua carriera, ricordando che From a Room è un doppio episodio della stessa narrazione) supera i precedenti, anche il potente esordio di The Traveller. Cold è un pezzo da brividi, come Watch You Burn e Hillbilly Blood. I confini del suo mondo sono tra i Creedence (e infatti lui reinterpreta Joy of My Life di Fogerty) e la Band. Voce da brividi e suoni grezzi e sinceri. Sicuramente il miglior disco dell’anno!
2 - BLACKIE AND THE RODEO KINGS – KINGS OF THIS TOWN
Il trio canadese Colin Linden, Tom Wilson e Stephen Fearing è una forza poderosa nel panorama musicale nordamericano: tutto confermato con brani come Walking of Our Grave e con la waitsiana baby I’m Your Devil. Il finale, da brividi, è con Grace, ballata in punta di voce che esprime la domanda su quale mai sia il mistero che muove le nostre vite.
3 - JASON ISBELL – REUNIONS
Ormai definitivamente entrato nel novero dei gandi autori americani, JASON ISBELL in strepitosa forma produce un disco pieno di paure, ombre, riflessioni, sofferenze d’amore e di famiglia. Overseas è strepitosa, ma tutto il disco travolge come una tormenta e accarezza come bourbon.
4 - DRIVE BY TRUCKERS – THE UNRAVELING
Band impredibile, i DBT di Patterson Hood e Mike Cooley raccolgono sempre come spugne tutto il bello e il brutto della vita a Sud del Tenneessee, rimasticando tradizioni, suoni e valori che erano del southern rock e dell’alternative country. Ogni loro disco è un piccolo evento, zeppo di fastidio sociale e di rabbia politica, ed anche questo ultimo loro lavoro non sfugge alla regola: ascoltare Waiting for Resurrection, Heroin Again, Thoughts and Prayers ne sono la conferma
5 - TREY ANASTASIO – BURN IT DOWN
Il chitarrista dei Phish ha proposto nel 2020 una cascata di idee e musiche: prima il disco della band, poi (pochi giorni fa) un insieme di inediti realizzati con Page McConnell (tastierista della band). Ma soprattutto ha prodotto questo BURN IT DOWN registrato in tour con la Trey Anastasio Band. About to Run e Dark and Down sono da brividi, ma pure alcuni suoi classici (First Tube, Plasma, Love is Waht We Are) sono da applausi.
6 - WALTER TROUT – ORDINARY MADNESS
Tra gli over-60 è TROUT il chitarrista rock-blues più cocciutamente fedele alle radici. Pochi fronzoli e nessuna concessione al divertissment, tanta chitarra e buona scrittura. Sempre tagliente e cattivo, Walter Trout non trova riposo e conferma che i guai di salute (per fortuna superati) hanno restituito al blues un musicista ancora più motivato che nel passato.
7 - EINSTURZENDE NEUBAUTEN – ALLES IN ALLEM
La formazione berlinese di BLIXA BARGELD, simbolo concettuale, sperimentale ed artistico di tutti i rumorismi rock, torna con un disco a sei anni dal precedente Lament. Come sempre idee e creatività inarrivabili, citando lo spirito del tempo (Ten Gran Goldie), la morte di Rosa Luxembourg, le città , gli amori, le radici (Tempelhof, Wedding). Dovendo parlare di “musica colta†o di “rock intellettualeâ€, nessuno (forse) arriverà mai alle loro vette, unendo sempre intelligenza, ritmo, soluzioni inattese, provocazioni (non più selvagge come negli anni ’80) sublimi.
8 - SUPERSUCKERS – PLAY THAT ROCK’N'ROLL
A mezza via tra i Georgia Satellites e i Ramones, i Supersuckers di “Eddie Spaghetti†sfornano il miglior disco di puro rock’n’roll del 2020, con grandi ritmi, chitarre a mille, atmosfera che eccheggia gli ZZTop. Undici pezzi facili sempre incerti tra country e garage, da sentire a volume esagerato: la titletrack è puro trascinamento rocckettaro, mentre la rivisitazione di Dead, Jail or Rock’n’roll (dagli Hanoi Rocks) vale da solo l’applauso.
9 - VICTOR WAINWRIGHT – MEMPHIS LOUD
Con quel suo pianoforte che alterna ballate, honky tonk e soul-blues di grande fascino, il buon Victor Wainwright non tradisce giungendo ad una nuova prova eccellente (la quarta da quando è “emerso” dalle autoproduzioni). Canzoni trascinanti, con sentori di big band e di Dr. John (Golden Rule, Sing, Memphis Loud) con in cima due perfette slow ballads (Recovery, Disappear) ed una band che sostiene il piano-man con enorme feeling. Ma il suo stile sulla tastiera è il vero marchio di fabbrica aziendale…..
10 - STEVE HOWE – LOVE IS
C’è tanta sensibilità e sapienza progressive nel nuovo disco di STEVE HOWE, monumento chitarristico intramontabile. Il prog e il folk, le venature di decenni di palchi e di meditazione filosofica entrano con cura in Love is a River, canzone perfetta, ma anche nel resto della produzione. Un anno fa Jon Anderson aveva realizzato il magnifico 1000 Hands: i due sono pronti per ritrovarsi?
11 - ALLMAN BETTS BAND – BLESS YOUR HEART
Sarà che sono straconvinti di dover prendere a tutti i costi l’eredità dei genitori (Allman Brothers Band), sarà che non hanno ancora la continuità e la maturità per staccarsi dall’eredità pesante, rimane il fatto che la ALLMAN BETTS BAND è ancora… incompiuta. Bellissima quando suona liberamente (Pale Horse Rider, Ashes of My Love, Southern Rain), dove soffia il vento del rock degli ultimi 60anni. Un po’ ingessata quando ricade nell’inevitabile citazione (Savannah’s Dream), che per fortuna è ben suonata…..
12 - BOB DYLAN – ROUGH AND ROWDY WAYS
Un disco per dire che …. lui rimane il riferimento musicale di tutti, a qualsiasi età e cultura. Detta senza troppe scuse, Bob Dylan aveva infilato una serie di produzioni che avevano senso nel personale percorso di rilettura della storia della canzone americana, ma che all’ascolto peccavano di utile noiosità (Shadows in the Night, Fallen Angels, Triplicate). Con il nuovo disco Dylan riconferma di essere quello che nessuno potrà mai negargli: la massima vetta contemporanea di quella cultura artistica che chiamiamo musica. I Contain Multitudes è uno sguardo sul tempo e sulla vita che comprende Anna Frank e i Rolling Stones, Chopin e E.A.Poe. Giù il cappello.
13 - DAVID BROMBERG – BIG ROAD
Un monumento della musica americana (classe 1945) torna con un disco godibilissimo, sempre con le radici ben piantate nel country e nel bluegrass (come dimostra il pezzo dedicato a George Jones, Conway Twitty e Merle Haggard). DAVID BROMBERG firma un paio di capolavori emozionanti: Loving of the Game e soprattutto l’epica Diamon Lil, ballata lunghissima che pare venuta dal miglior catalogo di Van Morrison, con il suggerimento amichevole che “un uomo non dovrebbe mai scommettere, più di quanto possa accettare di perdere…â€.
14 – JOE LOUIS WALKER – BLUES COMIN’ ON
Più o meno nello stesso periodo Dion e JOE LOUIS WALKER hanno fatto uscire un disco con collaborazioni celebri. Ovviamente sono due dischi blues (strano per Dion, meno per Walker). Il disco più riuscito è quello del californiano Walker. Ci sono dentro Clapton, Eric Gales, Albert Lee, Keb Mo e Waddy Watchell tra gli altri. C’è tanto blues, ma alternato a sprazzi di soul e pop, in ottima qualità complessiva. Non è un disco “purista” ma si sente con grande piacevolezza: ascoltare Blues Comin’ On, Seven More Steps e Old Times Used To Be per credere.
15 – WHISKEY TREATY ROADSHOW – BAND TOGETHER
Una sorta di supergruppo, che miscela scrittura, voci e chitarre di differenti songwriter legati al folk, al country, all’americana. Bel disco, soprendente nel suo piccolo: Pass the Peace, I Bet the World e soprattutto Following Your Tears aprono squarci di speranza romantica sul mondo. I cinque del Massachussets - Greg Smith, David Tanklefsky, Billy Keane, Chris Merenda, and Tory Hanna - hanno creato un disco di folk, di roots music venata di gospel-blues e di passione come non se ne sentono tanti….
16 – JOSHUA RAY WALKER – GLAD YOU MADE IT
Voce adolescente su un corpo extralarge: Joshua Ray Walker è una delle rivelazioni dell’anno. La sua Voices è una canzone sul tormento del suicidio, raccontata con sorprendente purezza e dolore. Il disco è tutto da sentire e ruminare: il country passa di qui, da questo giovane texano che racconta di giovani sperduti, tra citazioni di Townes Van Zandt, influenze di Dwight Yoakam e suoni tra i Lynyrd Skynyrd e Garth Brooks. Le migliori sono User, Bronco Billy’s e D.B.Cooper.
17 - PHILIP SAYCE – SPIRIT RISING
Chitarrista canadese, apprezzato e protetto da giovanissimo da Jeff Healey, Sayce è cresciuto negli anni costruendo una via molto aggressiva e robusta al rock blues. Nell’elenco ormai interminabile di “nuovi Jimi†e “nuovi Stevie Rayâ€, il canadese si è ritagliato uno spazio distinguibile proprio per il tono sempre rovente e spesso maledetto dei suoi brani, che sfocia nella caotica e trascinante Wild e nell’atmosfera vodoo di Awful Dreams.
18 - FLOWER KINGS – ISLANDS
Disco di puro progressive anni 70, questo prodotto della band svedese fondata da Roine Stolt (già con i Transatlantic e con mille altri) è un omaggio concettuale all’epoca Yes-Genesis-ELP. Suonato con perizia - ma questa è un’ovvietà , visto il genere - il nuovo disco dei Flower Kings ha idee e buona scrittura, fin dall’iniziale Racing With Blinders On, fino a Tangerine e Solaris. Melodicamente ricchissimi, spesso vicini al modello Big Big Train, fortunatamente evitano i territori del metal e si fanno quindi apprezzare anche da chi ha adorato la PFM o i Gentle Giant….
19 – CHUCK PROPHET – THE LAND THE TIME FORGOT
Distinguibile in tutto e per tutto, dalla voce ai suoni, Chuck Prophet continua il suo percorso di folk-rock psichedelico e ben piantato nei Sixties, tra il fantasma dei Birds e lo stile di Ray Davies. Un suo album è da sentire d’infilata: il tempo non è mai passato ed anche questo nuovo album (il 15° da solo, sostanzialmente tutti dopo i Green on Red) lo conferma: Best Shirt On sembra un pezzo di Ray Davies suonato dagli XTC, mentre Willi and Nilli, Meet me at the Roundabout e Nixonland fondono country e desert rock alla perfezione. Get off the Stage è il divertimento finale: ci vediamo alla prossima, con la solita ironia…
20 – BRUCE SPRINGSTEEN – LETTER TO YOU
Probabilmente il disco più significativo di Bruce Springsteen dalle Seeger Session (2006) ad oggi. Una canzone come House of Thousands Guitars vale da sola l’ascolto. Ma ci sono anche Letter to You, Ghosts, Burnin’ Train a completare l’opera. Sempre onesto e diretto: l’età gli pesa (come è naturale), ma la band suona come solo lei sa fare: ci sarà un tour con buona musica da non perdere nel prossimo biennio?