2007: I FANTASTICI SEI

Ry CooderDappertutto si stilano classifiche, perché mai noi di Risonanza non dovremmo fare la nostra? Dopodichè, se proprio vogliamo discuterne, diciamo che qui ognuno si fa la propria lista dei migliori e vediamo se qualcosa combacia con quelle degli altri. Comincio io, per comodità. Per fare una cosa “differente” propongo la lista dei migliori 6 (un numero che non dice niente, anche a scuola il sei è un numero senza senzo, però almeno così siamo “origgginali”). Ovviamente i “Fantastici SEI” sono in ordine sparso: 

Ry Cooder – My name is Buddy – Da tanto tempo sua immensità Ry non dava alle stampe un disco così. Una marea di musica, tante (ma proprio tante) traditional songs rilette e riarrangiate con testi nuovi a raccontare la storia felina di un gatto di nome Buddy. Nell’elenco anche alcune canzoni sperimentali: bellissimo.
Mary Gauthier – Between daylight and dark – Povero, ma bello, forte in dignità e in poesia, questa nuova prova di Mary è un disco da conservare, meditare, assaporare. Se fosse vivo, Woody Guthrie vorrebbe Mary nei suoi concerti. E forse anche Jim Croce. Occhio ai testi…
Dickey Betts – Official bottleg – Non è un “solo un disco”, ma un enciclopedia southern: Dickey mette insieme una band spropositata (tre chitarristi, due batteristi….) e decide di buttare via l’orologio. Risultato: In memory of Elizabeth Reed di oltre trenta minuti, Jessica e Blue Sky oltre i quindici, Seven turns splendente come gli occhi della donna che ti ama…
Waterboys – Book of lightning – Ci sono alcuni titoli in questo prodotto di Mike Scott che fanno venire i brividi: mi riferisco a You in the sky, Sustain e Everybody takes a tumble. Cuore che pompa sangue verso le arterie della vita e della musica. Bentornati!
Subdudes – Street symphony – Dopo qualche anno di silenzio, i ragazzi di New Orleans ritornano con un disco che mi ha fatto molta compagnia quest’anno. Due cnzoni su tutte: No man e Poor mans paradise. Loro sono dei furbacchioni del jazz heritage fetstival, ma il disco è emozionante. 
Lovett – It’s not big, it’s large – E’ difficile trovare dei passi falsi nella discografia di Lyle, almeno dai tempi di Joshua judge Ruth. Il texano ha uno stile che ben pochi possiedono in giro per il mondo e una band sontuosa: dove lo swing termina s’avanza il country’n’westren, dove c’è gospel si sentono echi di ballads. Così tra una South Texas girl e una Don’t cry a tear mi struggo ancora nell’idea che Lovett sia in realtà uno scrittore prestato alla musica. Quel che conta è che lui è sempre nella mia top.

Walter Gatti

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