Nonostante ci abbia lasciato da anni Fabrizio De Andrè è ancora vivo, vivissimo in chi lo ha amato ed ascoltato nelle sue parole forti, nelle canzoni coraggiose che hanno saputo affrontare argomenti spinosi e non propriamente da musica leggera. Genovese, poi diventato – come amava dire lui – “genovardo” dopo aver trovato in Sardegna una dimensione più connaturata al suo carattere, vicina alla terra che sin dall’infanzia gli aveva evocato sentimenti di tranquillità e pace. Vivo, dicevo, non solo a Genova ed in Liguria ma ovunque ci sia qualcuno che sa ascoltare, nei suoi modi scontrosi, la voce del popolo, il racconto delle esperienze intime, la guerra, i piccoli problemi quotidiani ma anche quelli legati al disagio sociale sempre presenti nei suoi pensieri maturati nella cultura anarchica. Genova, a cui De Andrè è indissolubilmente legato e che ha cantato molte volte, a mio parere raggiunge lo stato di luogo magico, di luogo universale in Creuza de mà, canzone del 1984, della maturità sia lirica che musicale di De Andrè. Operazione riuscitissima, quasi filologica nell’uso delle voci di sottofondo, degli strumenti medievali, degli arrangiamenti eccezionali assistiti da Mauro Pagani, amico conosciuto nelle esperienze dal vivo con la PFM; e poi cantata in dialetto genovese, che poeticamente si mescola ai suoni degli strumenti da un suono quasi arabesco, a fiato ed a corda, e con parole e modi a volte intraducibili ci dipinge uno squarcio della vita di un marinaio, ci fa ascoltare odori marini non sempre gradevoli e sapori di cucina popolare. Nella canzone, ma anche nell’intero disco, emerge tutta l’esperienza di De Andrè, la formazione alla scuola francese, ma anche sui libri di Bakunin; canzone ermetica, parla di cose povere ma vere, ma soprattutto ci avvolge in un atmosfera da strada in cui spesso mi ritrovo passeggiando per i caruggi di Genova.
Davide Palummo, novembre 2007