ALAN VEGA: MORTE E RESURREZIONE DI UN ARTISTA

(pezzo uscito su ILGIORNALE, 11 agosto 2017, non lo avevo pubblicato prima e allora ecco qui……..)

Alan Vega non è mai stato un musicista accessibile. Il signor Boruch Alan Bermowitz (è il nome anagrafico di questo newyorkse purosangue scomparso nel luglio del 2016), già nei primissimi anni ’70 con la sua band, i Suicide, ha portato sullo scenario musicale una forma embrionale di spigolosissimo e sfacciato elettro-punk, ben prima della nascita del genere nel suo formato rocckettaro con Sex Pistols, Clash, Ramones e compagnia.

Nell’epoca del girovagare live dei Suicide, Vega – in compagnia di Martin Rev, tastierista e programmatore ossessionato e ossessionante – si è fatto amare-odiare dal pubblico, dividendolo in fazioni, frustandolo con un suono fastidioso ed elettrico, provocandolo da nemico a colpi di elettronica e di memento mori, facendosi cacciare violentemente da quelli che volevano ascoltare pezzi di punk-rock a base di chitarre, pezzi veloci e borchie.

Negli anni in cui il punk era alternativa agli standard rock, i Suicide erano alternativa a entrambi. Il punk voleva essere svuotamento cutaneo ed esteriore della rabbia giovane mentre invece Alan Vega voleva contribuire ad aumentare il ribollire dell’odio interno. Per questo Alan diventerà uno dei personaggi più influenti su una vastissima generazione di musicisti e di generi più o meno sperimentali, facendosi amare da Springsteen e Lou Reed, Sonic Youth e Nick Cave, Depeche Mode e Nine Inch Nals, Primal Scream e Marc Almond, incidendo su no wave, noise, elettro-pop, industrial metal e finanche sulla techno.

Figlio di una coppia metà ebraica e metà cattolica, studente ad un college di arte contemporanea, Alan ha tratteggiato così un incubo metropolitano con terrificanti canzoni manifesto capeggiate da Frankie Teardrop (uscito nel 1977 nel primo album dei Suicide), storia di un giovane che compie il peggio di fronte alle delusioni della vita, come se l’epilogo di The River (uscito nel 1980) di Springsteen fosse una scena cosparsa di sangue innocente.

Morto all’età di 78 anni lo scorso anno, Vega ha lasciato materiale per un nuovo apocalittico album appena uscito, IT, pubblicato sotto la supervisione della moglie Elizabeth Lamere. Ed è un disco (naturalmente) dissacrante e sepolcrale, più opera d’arte estrema che prodotto musicale. Tra noise elettronico, drum machines e tematiche da “fine dei tempi”, Alan Vega apre il suo nuovo disco con i sei minuti mozzafiato di DTM (Dead to Me), vertiginosa, ripetitiva e rimbombante litania nera: “La vita non è un gioco, la vita non è un gioco”, ripete il musicista, declamando che siamo “nei giorni e nelle notti del puro male, del male perfetto”. Come direbbe il colonnello Kurtz-Marlon Brando: è il tempo dell’orrore.

L’incubo di cui narra il musicista di Brooklyn non è forse una novità (si pensi agli ultimi lavori di Roger Waters o di Mark Lanegan…): è la contemporaneità fatta di breaking news sanguinose, di sgozzamenti televisivi e di popolazioni sotto bombardamento continuo, di volgarità pubblicitaria e di scarsità di arte autentica. Screaming Jesus si apre con un minuto di urla, in cui la Crocifissione (pochi come Vega hanno sentito l’attrazione della Croce) è contraltare divino delle morti insensate con cui il nostro tempo imbandisce la tavola degli scoop. Ci si immerge poi in un contesto industrial per Motorcycle Explodes, una cavalcata che ruota attorno all’agonia del sogno americano della corsa in Harley verso la libertà (“la verità è morta”), quasi citando un’epica scena di Zabrinskie Point.

I testi – come d’abitudine – sono declamazioni, frasi-manifesto, claim espressionisti per Alan Vega che come in ogni altro suo disco urla e strepita, a volte declama. L’unica differenza tra lui e Giovanni Lindo Ferretti (per suggerire un punto di contatto con un altro artista visionario e “urlatore”) è che quest’ultimo si lascia sempre uno spazio finale di possibile redenzione. In Vega la redenzione è un lumicino. Eppure c’è: anche Alan nella sua terra desolata accende una lampada di speranza: in Prayer le parole sono “Meditazione, La guerra è finita, Pace, Hallelujia, Questo è il mio hallelujia, Prega per la Redenzione, Dammi il tuo Pane”. Parole che si stampano su un pentagramma di loop meno ossessivi del solito.

Al termine di 53minuti di musica-non musica, rimane per chi ascolta il senso di apocalisse, di altare sacrificale, di tragica profezia. Alan Vega al termine del suo viaggio musicale lancia una ulteriore sfida, un oltraggio alla visione prometeica dell’uomo, che è il vero bersaglio della sua violenza verbale: il disco si conclude con Stars, un brano in cui una voce quasi proveniente dal profondo dei cieli declama “ti ho dato le stelle, i pianeti, le terre, le stelle, il potere: è tutto tuo ed è tutto gratis”….. quasi a voler rappresentare una resa dei conti: che ne è stato del potere illimitato dato all’uomo? Il tutto su uno sfondo di tastiere che rappresentano tempi e galassie inquietanti ed immutabili. Tra Philip Dick e William Borroughs si incrociano frequenze metalliche e giorno del giudizio in uno scenario che termina sulle parole finali: “ricorda, è la tua vita, è la tua vita!”. Parole che Alan Vega declama come fosse un sacerdote dell’Ade.

Cala così il sipario su un personaggio apocalittico e borderline e si spegne una voce urlante, che ricorda per analogie anche visive lo stile sanguinoso delle opere senza volto di Francis Bacon. Chissà se ne rimarrà l’eco in giro nel mondo delle sette note.

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