
di ANDREA PIN
Le città di pianura è contemporaneamente due cose molto diverse. In primo luogo, è il racconto della brusca maturazione di un giovane universitario—Giulio—grazie al groviglio di esperienze cui lo sottopongono, trascinandolo sempre un po’ più in là, Carlo e Doriano, due adulti della provincia veneta. Una provincia che tra l’altro chi scrive ben conosce (compresa l’oscena statua della libertà color cobalto alta tre metri che campeggia in un parcheggio di un bar fuori Castelfranco e che a un certo punto compare nel film). In secondo luogo, è un dito puntato nei confronti del Veneto, di cui quei due adulti sono il sottoprodotto (o forse la quintessenza?).
Il regista ha cucito insieme queste due storie tramite una delle tecniche narrative più consuete, ossia il viaggio. Tuttavia stavolta non è un vero viaggio: i protagonisti non condividono una scassata Jaguar comprata “grattando” occhiali (altro topos della pedemontana veneta) perché hanno la medesima meta; non viaggiano insieme nemmeno per una parte del tragitto. Infatti qui il viaggio non c’è: è letteralmente un vagare da un bar all’altro, da una prostituta ad un aeroporto dove i due adulti dovrebbero recuperare un amico di ritorno da anni di latitanza, se l’alcol non avesse loro fatto scordare se si tratti del Terminal di Treviso o Venezia. I grandi trascinano il giovane, smarritosi per amore, in un tentativo di affogare le proprie pene in vari piaceri, nessuno dei quali—lo sanno per primi i protagonisti—sarà mai abbastanza.
La pellicola mette a fuoco gli stereotipi del Veneto: chi ha fatto i soldi è contrapposto (ma solo apparentemente) all’operaio spaccatosi la schiena nell’ingranaggio economico e che, una volta in pensione,occupa le giornate alle slot machines di squallidi locali. I due bevitori seriali che accompagnano Giulio con la Jaguar non hanno alcun afflato ideale; nessun ribellismo, antagonismo, o resistenza al sistema. Vivono una solitudine che annegano nella loro complicità e nell’abuso di alcol, in un modo non troppo diverso dai compagni di corso di Giulio, i quali abusano di altre sostanze e si stordiscono di sensazioni che non hanno nulla di veramente attraente. Giulio non è attratto dalla felicità e dal significato della vita che vede nei due uomini maturi, anche se a tratti è incuriosito da un loro tratto, gravido di nostalgia–e che traspare talvolta dalla tenerezza con la quale Carlo e Doriano lo guardano.
(Piccolo) spoiler: alla fine Giulio andrà oltre. Doriano e Carlo non paiono veramente comunicargli alcun significato cui si possa afferrare: si salutano con un addio muto, pieno di parole incomprensibili ovattate da un vetro, che somiglia a quello del milionario che saluta il neopensionato nel fragore delle pale di un elicottero.
Un messaggio incomprensibile è una metafora fortunata, che lascia lo spettatore con un interrogativo su quale verità possa comunicare una vita del genere.
E’ questo il vero Veneto? Il film è l’ennesima accusa nei confronti di una zona arricchitasi di denaro e comodità ma non di significato, i cui perdenti—eterni immaturi, suggerisce il film–saranno forse simpatici perché goliardici, ma senz’altro non interessanti?
Forse con un atteggiamento assolutorio legato alla propria origine, chi scrive intravede una verità nel film, ma una verità antropologica prima che regionale. Magari il Veneto è dopotutto come tanti altri posti, rispetto ai quali si differenza semplicemente perché non ha più l’alibi della povertà. Se la pellicola volutamente non offre alcuna poesia, se non in rari momenti consapevolmente autoconsolatori o di leggerezza (che rendono il film molto facile e piacevole da seguire), ci si consente al contrario di chiudere con alcuni versi di T.S. Eliot che paiono illuminare la posta in gioco: stiamo parlando di una civiltà cresciuta in tutto, tranne che forse nell’essenziale?
Tutta la nostra conoscenza ci porta più vicini alla nostra ignoranza,
Tutta la nostra ignoranza ci porta più vicino alla morte.
Ma più vicino alla morte, non più vicini a Dio.
Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo?

