Auguri Keith Jarrett!

Oggi 8 maggio 2025 compie 80 anni Keith Jarrett, uno dei musicisti che abita il mio personale Olimpo della Musica, assieme a molti altri personaggi ormai scomparsi o fuori gioco per qualche altro motivo, appartenenti alle più diverse aree musicali.
Stavo scrivendo “il povero e sfortunato Jarrett” pensando alla sua attuale condizione di semiparalizzato dopo una serie di ictus che lo hanno colpito nel 2018, lui cultore sin da bambino dell’arte di suonare il pianoforte ora impossibilitato a farlo per l’indisponibilità della mano sinistra, quella di supporto alla melodia. Ma a vederla bene forse tanto sfortunato non è perché per molti anni è stato uno dei più accreditati musicisti a livello mondiale, ha suonato in migliaia di concerti in giro per il mondo, ha registrato più di 70 dischi in studio, una quindicina dal vivo, ha partecipato a circa 30 opere di altri musicisti, è stato letteralmente idolatrato in alcuni paesi (come il Giappone), ha collaborato con i più grandi musicisti jazz dello scorso secolo come Art Blakey, Charles Lloyd, Miles Davis, Paul Motian senza dimenticare la sua lunga esperienza nel super trio con Jack DeJohnette e Gary Peacock.
La mia conoscenza di Jarrett comincia all’inizio degli anni 90 quando mi avvicino ai suoi primi lavori (che fulmine l’ascolto di The Koln Concert!) e mi innamoro di quelli degli anni 80 e 90; i suoi splendidi dischi in trio erano certamente quelli che all’inizio amavo di più dal punto di vista musicale ma ascoltati anche maniacalmente da me ed alcuni amici per verificare le capacità dei nostri impianti stereo, in puro spirito esoterico: messo sul piatto The Cure (ECM, 1990) venivano esaminate tutte le frequenze riprodotte del piano, del basso e della batteria, la posizione dei vari strumenti nel fronte sonoro riprodotto, la formidabile dinamica che ne emergeva, i mugolii di Jarrett in sottofondo, il rumore delle dita di Peacock sulle corde del suo basso. Ma contemporaneamente nasceva la mia profonda passione per questo musicista che si andava a confrontare con Thelonious Monk (Bemsha Swing), con Dizzy Gillespie (Old Folks) e con Duke Ellinton (Things ain’t what they used to be) solo per riferirmi al succitato The Cure. L’ho inseguito per mezza Europa, sono rimasto fuori dall’arena di Juan-les-Pins nel 2004 perché i biglietti per il suo concerto erano esauriti fino a vederlo finalmente dal vivo a Firenze nel luglio del 2009 (leggi su queste pagine: qui): che emozione! Nella mia collezione di dischi quelli di Keith Jarrett hanno una posizione dominante sia in termini numerici (oltre 70 CD e 30 vinili) che dal punto di vista della magnifica musica che continuo ad ascoltare ininterrottamente ormai da quasi 40 anni. Mi piace tutta la sua produzione a cominciare da quella con i Jazz Messenger di Art Blakey assieme a Chuck Mangione, Franck Mitchell e Reggie Johnson (Buttercorn Lady, 1966) quando era appena ventenne. Bellissime le registrazioni con il suo primo trio con Jack DeJohnette e Paul Motian (Life between the Exit Signs, 1968) e quelle in solitario con sue composizioni (Facing You, 1972) che saranno nel futuro tantissime. Fondamentale il suo incontro con Miles Davis con il quale suonò, suo malgrado, piano elettrico e organo alternandosi a Chick Corea: belle le registrazioni con il gruppo di Davis (The Cellar Door Sessions, 1970) ma molto più importante quello che gli rimarrà addosso di questa esperienza per il resto della vita. Dei primi anni 70 mi piacciono molto le sperimentazioni del suo trio-quartetto-quintetto dove alla base del gruppo con DeJohnette e Motian si uniscono di volta in volta Dewey Redman (sax), Airto Moreira (percussioni), Sam Brown (chitarra) e vedono lo stesso Jarrett suonare batteria e sassofono. Si consolida la collaborazione con la ECM di Manfred Eicher ed arrivano alcuni dischi che mi piacciono tantissimo dal timbro nordico imposto dal sassofonista Jan Garbarek, dal bassista Palle Danielsson e dal batterista Jon Christensen (My Song, 1977). I dischi solisti sono moltissimi nella carriera di Keith Jarrett, sia in studio che dal vivo, basati su sue composizioni, standards, musica classica ma certamente i migliori a mio parere sono quelli dove emerge la sua magnifica capacità d’improvvisazione come The Koln Concert del 1975 e Sun Bars Concerts del 1976 a cui seguono molti altri registrati a Tokyo, Parigi, Vienna, Milano, New York, uno più bello dell’altro. Non sono da dimenticare a mio parere tutti i dischi della serie Standards che partono nel 1983 e le moltissime registrazioni di musica classica dove si alternano sperticate sperimentazioni con il chitarrista Ralph Towner (In the Light, 1973), collaborazioni con orchestre sinfoniche (The Celestial Hawk, 1980) ed interpretazioni di A. Part, J.S. Bach, G.F. Handel, D. Shostakovich, W.A. Mozart ed altri. Molto belli anche tutti i dischi degli anni 2000, moltissimi, diversi, coinvolgenti fino a quello dal vivo nel qual forse Jarrett vuole consegnare al mondo il suo lascito con un paio di magnifici concerti a Parigi e Londra (Testament, 2008) e dove nelle note scrive in chiusura: How fragile and serendipitous things are indeed, unbearably so.
Insomma, tanti tanti auguri Keith Jarrett, sei e rimarrai per sempre uno dei miei idoli e la tua musica continua a farmi compagnia sia quando è solitaria, riflessiva e malinconica sia quando è allegra, ritmata, coinvolgente.

Davide Palummo, maggio 2025

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