BEST 10 ALBUM ’25: GOOSE, PATTERSON HOOD E GLI ALTRI

Nel caso a qualcuno possa interessare, ecco i DIECI migliori dischi del 2025 a mio modesto e insindacabile avviso. Potrebbe finirci molto altro, da Robert Plant all’ultimo bell’album di Dion, ma questi sono quelli che mi hanno tenuto positivamente compagnia per l’anno che va a finire. Buon ascolto, Buon Natale e Buon Anno ed il resto mettetecelo voi… (PS: dovevano essere DIECI album, ma alla fine erano di più, allora alcuni li ho accorpati).

NUMERO UNO – GOOSE, LIVE AT MADISON SQUARE GARDEN – Diciamo che scelgo il live dei Goose come miglior disco dell’anno (a parimerito) perché ci vuole coraggio per mettere in fila in un disco i concerti del Madison Square Garden di quest’anno. Tutti gli amanti dei Phish lo possono apprezzare. Certamente la jamming attitude è la cifra di questo lavoro, ma Rick Mitarotonda e soci ci mettono dentro origini e profumi differenti da Trey Anastasyo e compagni. Ci sono occhieggiature pop e funky (Don’t Leave Me This Way), ma in Animal, Hungersite e Tumble si sentono anche ambientazioni oscure che potrebbero venire dai Blue Oyster Cult e tanta psichedelia lisergica nel senso dei Quicksilver Messangr Service. Una bella immersione sonora con un quartetto di musicisti straordinari, che si divertono a suonare 15-20-25 minuti senza sosta. E l’anno prossimo arrivano in tour in Europa (ovviamente Italia esclusa).

NUMERO UNO – PATTERSON HOOD, EXPLODING TREES AND AIRPLANE SCREAMS – Primo a parimerito. Il leader (in coabitazione con Mike Coole) dei Drive By Truckers si mette in proprio e sfodera un album inquietante e poetico. Per capirci: non ci sono chitarrone elettriche o acidità sudiste, ma il tutto si snoda sui binari di un folk-pop che ogni tanto sfocia nella musica da camera, con archi, violoncelli, tastiere. Questo quarto disco solista di Hood è una magia. Patterson scrive come pochi altri, e canta anche meglio. Il suo racconton non è diverso dal passato: giovani americani senza senso e senza speranza in un mid-west privo di romanticismo. Dolore, alcool, solitudine che si inseguono tra le linee melodiche di At Safe Distance e Fork of Cypress, fotografie di un sud gotico molto poco orgoglioso, anche se cocciutamente vivo. La conclusione è affidata a Pinocchio, quasi una filastrocca, ma con un senso inestirpabile della vita e del cammino da compiere: ” Ho imparato che il Paradiso non è il Paese dei Balocchi/ C’è più senso nel mantenere l’amore che nel continuare a sorridere/ La verità può certo ferire, ma una bugia distrugge/ Nel profondo di ogni uomo c’è un ragazzo vivo e vegeto”. Grandissimo.

NUMERO DUE – MIKE FARRIS, The Sound Of Muscle Shoals – Ce ne sono pochi come Farris in circolazione. Diciamo che ci sono Jimmy Hall (Wet Willie per intendersi) e JJ Grey, e poi quelli che cercano di tenere alta ed altissima la reputazione del southern soul sono pressochè terminati. L’album (titolo che definisce subito il terreno di gioco) si apre con una strepitosa Ease On e prosegue con Swinging (di Tom Petty). I’ll Come Running, Learning to Love, Sunset Road, sono immersioni nella tradizione-Stax, con Farris a suo agio in un contesto artistico che guarda a Wilson Picket, Otis Redding e Staple Singers. Disco azzeccatissimo e potente. Speriamo prosegua sempre così. Una postilla: anche Marcus King cerca di iscriversi a questa categoria di “southern soul guys”, ma ancora con risultati “autoriali” altalenanti: va molto meglio come chitarrista (e lo sta dimostrando in questi tempi con Charlie Starr dei Blackberry Smoke, con cui sta portando in giro per gli States un super-tributo all’insuperabile Toy Caldwell della Marshall Tucker Band). In ogni caso nel suo ultimo album, Darling Blue, c’è un pezzo stratosferico: No Room for Blue. Fosse tutto così sarebbe inarrivabile…

NUMERO TRE – JASON ISBELL, FOXES IN THE SNOW – Da qualsiasi parte lo si prende, Jason fa le cose con un cuore ed una partecipazione che lasciano spesso senza fiato. Lo senti con i 400 Unit e poi lo risenti da solo, poi nella reunion dei Drive By Truckers, e lui è sempre li, pulito, intenso, partecipe, capace di essere autore e chitarrista, rocckettaro e poi folksinger, come in questo album che riprende con efficacia il discorso di Southeastern (2013). Le influenze sono tante: in Bury me e in Ride to Robert c’è parecchio “dylanismo”, qua e la ci sono influenze da Paul Simon (Gravelweed) e da James Taylor (Eileen), ma c’è lo scibile nel suo zaino, con Gram Parson e Lowell George che suggeriscono melodie e ritornelli. In True beliver continua il racconto a distanza della fine di un amore (quello tra lui e Amanda Shires, che quest’anno ha prodotto il disco “della sua versione dei fatti”, Nobody’s Girl). Sopra le altre canzoni svetta Foxes in the Snow, il pezzo perfetto, un gioco country-blues a cui appartengono anche inflessioni di antichi spirituals. Ed anche questa volta Isbell continua a non sbagliare un colpo.

NUMERO QUATTRO – JOE ELY – TODD SNIDER – Le due grandi perdite degli ultimi mesi (a cui si aggiunge quella di Raul Malo, RIP) le accomuno in un unico voto-postazione, perché i loro dischi meritano davvero un ascolto continuo, accorato e commosso. Ely ha prodotto all’inizio dell’anno LOVE AND FREEDOM, raccogliendo una serie di registrazioni inedite degli anni scorsi e riarrangiandole con Lloyd Maines e David Grissom. Ci sono cose meravigliose come For Sake for the Song (di Townes Van Zandt) e Deportee (da Woody Guthrie), ma What Kind of War batte tutte, anche per la capacità grezza di urlare la necessità di un pacifismo consapevole ed irriducibile. Lo ricorderemo sempre per Honky Tonk Masquerade, Letter From Laredo e Live Shot, ma questo suo ultimo album è nei piani alti della sua produzione. La scomparsa di Ely, è arrivata pochi giorni dopo la morte di Todd Snider, avvenuta dopo un arresto ed una carcerazione non troppo chiarita. Il suo ultimo HIGH, LONESOME AND THEN SOME è una sorta di testamento esistenziale oltre che artistico, che affida ad uno scarno fraseggio blues una lunghissima riflessione sulla solitudine (che era poi il suo tema ricorrente, fin dal primo bellissimo Songs for the Daily Planet, 1994). Bellissime, povere, dimesse, sincere, potenti sono Human Condition, Older Women e soprattutto la conclusiva The Temptation to Exist, che lascia ampio spazio ad un blues che rieccheggia il Mississippi.

NUMERO CINQUE – JULIE FOWLIS E….. ALLT VOL.2 – Album uscito all’inizio dell’anno, l’ho sentito decine e decine di volte: quando la musica celtica unisce purezza di suono, incantamento e capacità di spingere il folk verso frontiere a modo loro “sperimentali” è in grado di affascinare per sempre. Con questo disco un team di bei musicisti scozzesi (Julie Fowles, Zo Conway, John McIntyre, Eamon Doorley) ripete il lavoro già fatto alcuni anni fa di vestizione musicale di poeti gaelici, ma con risultati anche migliori. Julie Fowlis conferma di essere un’interprete mistica, capace di spaziare verso orizzonti diversissimi (e non a caso quest’anno ha anche inciso un bel disco con Mary Chapin Carpenter), Zoe e gli altri sono dei numeri Uno. Già dal primo brano, Cuihmne (che significa Memoria, ed il cui testo è opera del poeta scozzese John MacLean), ci si trova in un mondo parallelo, in un sogno di purezza estetica naturale. Forse Connla è il brano più bello insieme a Fidléir Ghleann Fhinne e a O’Eirich, ma il disco è da respirare nella sua epica interezza, senza sosta: potrebbe illuminare le giornate.

NUMERO SEI – WHISKEY MYERS e 49 WINCHESTER – Due bei dischi di autentico Southern Rock da suonare e risuonare. Dopo che sono spariti (per motivi tragici) gli Steelwoods, la tradizione è mantenuta alta dai Whiskey Myers e dai 49 Winchester. I primi, texani, mettono in Whomp Wack Thunder ingredienti che a volte possono sembrare insoliti (come certe metriche pseudo rap) o che li apparentano a Beck ed a My Morning Jacket, però risultano convincenti e graffianti al punto giusto. I Got To Move e Icarus sono begli esempi di questa trascinane contaminazione, mentre Rowdy Days, Monsters e Rock’n’Roll sono i brani migliori di chiara tradizione southern. I secondi, dalla Virginia, sono con Leaving This Holler al secondo album “ufficiale” e azzeccano le canzoni e le emozioni giuste, con ingredienti country in quantità importante. Ballatona lenta e da brividi, la titletrack è un autentico capolavoro, mentre la conclusiva Anchor farà sognare notti sulle pianure infinite. Avanti così!

NUMERO SETTE – GREENSKY BLUEGRASS, XV – Il più bel disco di bluegrass dell’annata viene dal Michigan e lo firmano i Greensky Bluegrass, una delle formazioni ormai leader del mondo delle “jamming band”. Chitarre, banjo, mandolino, contrabbasso e dobro sono sufficienti per un viaggio cosmico nell’universo del folk contaminato da una vena progressive distintiva e creativa. In questo album ci sono pure la chitarra di Billy String (Reverend), Aron Neville ed Aoife O’ Donovan in Lose My Way, ed il bel piano di Holly Bowling nella lunghissima (14 minuti) Last Winter in Copper County. Negli Usa sono già un’istituzione, dopo i tour con Phil Lesh e gli emozionanti Railroad Earth. Sempre in attesa che facciano un salto anche dalle nostre parti.

NUMERO OTTO – ROBERT JON AND THE WRECK, HEARTBREAKS AND LAST GOODBYES– Macinano dischi e concerti senza risparmio alcuno, Robert Jon e compagni. Visti lo scorso anno live si può tranquillamente dire che la loro impronta sudista è quella classica degli anni ‘70-’80: sanguigna, verace, romantica, ribelle. Old Man, I Wanna Give It e Keep Myself Clean (un titolo programmatico) sono forse i titoli più riusciti, ma il bello con Robert Jon Burrison e compagni (sopra tutti svetta la chitarra di Henry “Schneekluth” James) è la coerenza totale del disco, che si ascolta senza cadute di tono. Sempre nel verbo dei Lynyrd Skynyrd.

NUMERO NOVE – BAND OF HEATHENS, ALL THAT REMAINS – Ecco un altro tostissimo live dopo quello dei GOOSE. La Band of Heathens ha un suono consolidato, ma risentire in piena forza il loro brano più tosto, Look at Miss Ohio (il brano è di Gillian Welch, ma qui diventa oltre tredici minuti di puro southern, lento, grezzo, capace dei soliti cambi di ritmo sudisti, con chiare reminiscenze pinkfloydiane, insomma un calderone..) fa davvero bene al cuore. Se poi Ed Juri, Gordy Quist e Colin Brooks ci aggiungono versioni perfette di Hurricane, LA County Blues e la conclusione affidata a You’re Gonna Miss Me When I’m Gone, allora siamo apposto. Unisco idealmente a questo live anche quello lanciato in estate dagli AMERICAN AQUARIUM, Live at Red Rocks, bellissima realtà del North Carolina, grezza e immediata al punto giusto. E Lonely Ain’t Easy è un pezzone strepitoso…

NUMERO DIECI – MATT ANDERSEN, THE HAMMER AND THE ROSE – Il nuovo disco del canadese Matt Andersen è decisamente meno rock e molto più intimista dei precedenti, che comunque erano prodotto più che godibili (soprattutto Big Bottle of Joy, 2023, decisamente gospel oriented). Belle canzoni (Counting Quarters), spruzzate di soul (The Cobbler) ed una You’re Here to Stay che sembra scritta da Ray Charles. Il brano di chiusura, Always Be Your Son, è dedicato al padre Lyndon. Disco pieno di feeling, cantato alla perfezione: funziona a qualsiasi ora della giornata. Devo farla sentire a mio figlio…

FUORI QUOTA – WATERBOYS, LIFE DEATH AND DENNIS HOPPER – Un disco strano, ma con un’intenzionalità importante. Mike Scott si immerge nei panni del narratore e racconta con registri diversissimi il percorso cinematografico di Dennis Hopper, suggerendo epoche e vissuti che vanno dalla Hollywood degli anni ‘50 a Easy Rider, dal folle The Last Movie al crepuscolo degli anni ‘90. Progetto bislacco, ma il tocco del leader dei Waterboys è sempre di qualità.

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