Esattamente 40 anni fa veniva pubblicato Crêuza de mä di Fabrizio De André. Si capì subito che era un capolavoro; divenne immediatamente un grande successo all’estero (tanto da essere segnalato da David Byrne come uno dei dischi più importanti degli anni 80) e fu acclamato in Italia con ottima accoglienza ed incetta di premi (primo tra tutti il Premio Club Tenco come miglior disco e canzone in dialetto). Alla sua uscita i commenti furono sicuramente discordanti ma ricordo Il Secolo XIX, quotidiano della Genova di Faber, che qualificò l’uscita del disco come “avvenimento eccezionale”.
La cosa singolare fu il successo inaspettato per un disco completamente cantato in dialetto genovese, anzi genovese stretto e spesso antico, abbastanza ostico per gli stessi liguri. Nonostante questo, a pochi mesi dall’uscita, già ad aprile del 1984 entra in classifica e a maggio arriva nelle Top 10 delle vendite. Il lavoro è il tredicesimo e terzultimo della carriera di De André, carriera segnata da grandi successi nei precedenti venti anni ed una fama ormai riconosciuta come cantautorato di qualità. Ma questo disco non segue il suddetto modello ormai consolidato e di successo bensì è dirompente, ha un approccio del cantato nuovo per De André da anni basato sullo stile, che lo ha reso noto all’inizio della sua carriera, della chanson française e quindi in qualche modo è anche un azzardo, sicuramente dal punto di vista commerciale. Con un’idea progettuale completamente nuova De André realizza Crêuza de mä con grande attenzione ai temi trattati, al testo ed alla parte musicale; per quest’ultima il contributo di Mauro Pagani è fondamentale. De André e Pagani si conoscono dai tempi de La Buona Novella ma rafforzano la loro amicizia durante il tour de L’Indiano, lavoro precedente a questo; inizia uno scambio di idee sulla musica mediterranea che dal punto di vista di De André è indirizzato soprattutto a raccontare la trasversalità della cultura e della lingua in contrapposizione a quella americana mentre dal punto di vista di Pagani a sperimentare musica e strumenti che non hanno confini, dai Balcani alla Grecia, dalla Turchia all’Italia. De André è risoluto, anche se con molti dubbi, e vuole fare questo cambio di marcia, realizzare un lavoro innovativo, proiettato nel futuro e sceglie il genovese come sintesi dei suoni e degli idiomi mediterranei: scelta azzeccatissima considerando a posteriori l’importanza che questo lavoro ha avuto ed ha ancor oggi. Le 7 canzoni presenti nel disco sono un puzzle perfetto dove il canto è al tempo stesso uno degli strumenti musicali, al fianco dei moltissimi suonati da Pagani e dagli altri musicisti, e espressione altamente poetica. Come lo stesso De André ha avuto modo di dire, il cantato in genovese scivola sopra gli strani suoni degli strumenti (bouzouki, oud, shanaj, …) e con i suoi termini persiani, turchi e arabi costruisce racconti fantastici.
Ogni ascolto del disco è una scoperta, ognuno ci scoverà qualcosa di nuovo ogni volta: personalmente ascoltando la canzone Crêuza de mä sento il caldo sprigionato dai muretti a secco che arginano le stradine che in discesa portano al mare, vedo il riverbero abbagliante del sole nei solchi del mare, sento il profumo di rosmarino, ascolto le voci di un mercato del pesce che è familiare per tutti i liguri, mi commuovo nella narrazione di una perdita importante come quella di un figlio per una delle tante guerre del medio oriente: che modernità, che grande disco!
Davide Palummo, aprile 2024
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