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But it’s these times I wonder
when I’m alone and I don’t see you
did I lose my way or did you lose yoursÂ
A fine anni 70, un paio di anni dopo il suicidio dell’amico/nemico folksinger Phil Ochs, Bob Dylan cantava in una sua canzone: “C’è un nuovo giorno all’alba, e ci sto arrivando. Non posso credere che sono vivoâ€.Non furono in molti, infatti, tra gli eroi dei giorni antichi del Greenwich Village, quando una generazione – per dirla alla Paul Simon – era “partita alla ricerca dell’America (e non solo) a poter dire di essere ancora vivi nei freddi anni 80 della musica computerizzata e buona per Mtv. Il già citato Phil Ochs, e poi Tim Hardin, Tim Buckley, David Blue e la lista di coloro che si erano arresi è ancor più lunga.Uno di quelli a poter dire grazie di essere ancora vivo era sicuramente Eric Andersen, il bel tenebroso del Village, un esordio nel 1965 sulle tracce di Bob Dylan e poi un’autorevole serie di dischi che influenzarono tra gli altri un certo Leonard Cohen, tra poesia di marca simbolista francese e alcune delle più belle melodie del songwriting statunitense, come quella Blue River incisa in coppia con Joni Mitchell.Nel 1988, dal suo esilio norvegese dove si è ritirato da anni, un colpo di coda, con l’inevitabile dedica a quegli amici persi e che ora sono solo “fantasmi lungo la stradaâ€: il disco Ghosts Upon The Road viene nominato dall’autorevole Rolling Stone “uno dei dieci dischi più belli degli anni 80â€.
Ed è vero: tra pagine di cantautorato adulto e raffinatissimo (Spanish Stairs, la murder ballad Trouble in Paris, la pianistica e intensa Irish Lace), Andersen infila la lunga title-track: quasi dieci muniti di declamazione spoken word su accompagnamento bluesy, in cui si consuma il peana per una generazione che era “partita alla ricerca dell’Americaâ€. Non la trovarono mai, ma ci regalarono alcune delle più belle canzoni del Novecento.
Paolo Vites