Dalle parti di Risonanza magari non scriviamo tantissimo, ma l’appuntamento di fine anno lo manteniamo fisso. Fedelmente fisso. Il 2017 è stato un altro anno messo malissimo in quanto a decessi: si pensi soprattutto a GREG ALLMAN e TOM PETTY, e poi (in ordine sparso): BRUCE HAMPTON (quella del colonnello è stata la scomparsa artistica più simbolica della storia: morto sul palco al termine del concerto per il suo compleanno), ALAN VEGA, CHUCK BERRY, FATS DOMINO, CHRIS CORNELL, AL JARREAU, WALTER BECKER.
Ho già avuto modo di fare qualche commento all’anno che si chiude: “L’annata è stata segnata dal ricordo dell’estate del 1967 e da tutto quello che significa per il mondo del rock e del pop, anche e soprattutto nel suo confronto con il presente. L’estate di San Francisco, nata 50anni fa e morta nel giro di pochi mesi, tra acidi e musiche in forme libere, amori e ribellismi vari ci ha portato Janis Joplin e i Grateful Dead, i Jefferson e i Quicksilver, Monterey e compagnia bella. Ma il ’67 ha soprattutto messo al mondo un movimento musicale, ha fatto intuire che ci potesse essere una socialità che si affratellava attorno a un palco e attorno ad una manciata di canzoni, per quanto folle potesse essere il tutto. Un po’ tutti, per dovere di cronaca, hanno ricordato quell’estate che ha lasciato tracce un po ovunque. Oggi di canzoni ce ne sono sempre di più, l’industria della musica (inutile lamentarsi) c’è e vive benissimo, del resto – soprattutto dell’idea di un movimento dinamico di arti e di culture che si esprimevano attraverso le canzoni e i suoni – non c’è più traccia. Si attende di sapere se un qualche tipo di “movimento” possa essere ancora nell’aria”.
Ma non posso dimenticare anche un evento che ha dell’eccezionale: “Da che mondo è mondo non si è mai sentito che un musicista italiano entrasse nella cinquina delle nomination dei Grammy Awards per la musica blues. Ci è riuscito Fabrizio Poggi, armonicista e cantante di razza pavese, indomito interprete ed autore che da decenni tiene alto il gemellaggio tra Italia e Mississippi e che – dopo anni di stupende collaborazioni – questa volta ha fatto centro in compagnia di Guy Davis (Sonny & Brownie’s Last Train). Vada come vada (i Grammy saranno assegnati a fine gennaio 2018) è lui l’evento dell’anno“.
Detto tutto questo, la musica nel 2017 per fortuna non è mancata, anzi: è stata tanta e pure bella.
Ecco dunque i MIGLIORI 20: BUON ASCOLTO E BUON ANNO.
BEST ALBUM 2017
1 – BLACKIE AND THE RODEO KINGS – KINGS AND KINGS
I tre canadesi, Wilson-Linden-Fearing, sono ormai una band perfetta. BLACKIE AND THE RODEO KINGS non sbagliano un disco e sono in crescita continua da Let’s Frolic (2006), ma con questo Kings and Kings – continuazione ideale di Kings and Queens, questa volta ovviamente con sole collaborazioni maschili – raggiungono la perfetta maturita compositiva e sonora. Live by the Song (con Rodney Crowell) è una ballata da dieci, seguita da Highwire, con Raul Malo. Il vecchio amico e ispiratore Bruce Cockburn rende preziosa una dolcissima A Woman Gets More Beautiful, mentre Vince Gill da il suo tocco chitarristico a This Lonesome Feeling in un disco che non prevede cadute di stile e gusto, dove tutto funziona con emozioni continue e dove anche il buon Eric Church fa la sua figurona nell’incedere abrasivo di Bury My Heart. Stupenda la melodia finale di Where the River Rolls. Disco dell’anno.
2 – GREGG ALLMAN – SOUTHERN BLOOD
Il padre del southern rock ci ha lasciato con un album meticoloso, passionale, indimenticabile, sofferto e poderoso. La sua ultima idea di musica è questa, la stessa condensata negli ultimi suoi live: un mix di southern e soul, di country e blues attraversato da quella voce che viene dall’eternità. I brani migliori sono l’iniziale My Only true Friend, la dylaniana Going Going Gone, Willin‘ (from Lowell George). Il brano di chiusura, Song for Adam, viene dall’archivio nobile dell’amico Jackson Browne e costringe i brividi anche ai meno sensibili. Cantato in modo impeccabile, suonato senza sbavature, il suo miglior prodotto solista da tanti anni. Poi si è spento. Addio Midnight Rider.
3 – JERRY DOUGLAS BAND – WHAT IF
Le jamming band hanno preso e rimasticato tutto lo scibile, ognuna con la propria personale rilettura sonora: la psichedelia dei Widespread Panic, il progressive dei Phish, l’eclettismo degli String Cheese Incident, il sudismo dei Gov’t Mule. Jerry “flux” Douglas con la sua superlativa band ha messo il bluegrass e le mille sfumature del country’n’western all’interno del suo ultimo What If, dove spirano forti anche le suggestioni jazzy. Da Cavebop a Unfolding, da Freemantle alla stupenda Butcher Boy. Con una ciliegina sulla torta: una versione bluegrass ultraveloce di Hey Joe. Fiati e resonator, violini e banjo: il miglior mix dagli Appalachi alla Louisiana, passando per Kentucky e Texas.
4 – CHRIS REA – ROAD SONGS FOR LOVERS
Meglio non perdere nessuna delle produzioni di Chris Rea dagli anni di Sun is Rising in poi. Ed anche questa volta il suo disco è un mix di eleganza e perdizione, con soluzioni pop inserite in un contesto che comunque sa di deltablues. Intrigante e sinuosa, Two Lost Soul è la ballata degli innamorati perduti, mentre Last train è un capolavoro oscuro e maledetto: e su quelle corde Chris (dopo i malanni) sa bene come si fa ad elevarsi sulle ali del blues…
5 – WALTER TROUT – WE’RE ALL IN THIS TOGETHER
In compagnia di un plotone di axeman, il buon Trout ci squaderna un superalbum di rock-blues elettrico. Difficile scegliere i pezzi migliori, dall’iniziale Gonna Hurt Like Hell alla lunghissima title-track (in compagnia di un Joe Bonamassa migliore del solito), passando per una perfetta The Sky is Crying in compagnia di sua maestà Warren Haynes. Elettrico e rabbioso, Trout rimane in vetta: da Common Ground (2010) non ha sbagliato un colpo.
6 – ALAN VEGA – IT
Disco postumo di uno dei più folli e importanti personaggi della musica e dell’arte contemporanea. Cattivo e apocalittico a partire dalla fastidiosa DTM (Death to Me). Elettro-punk immobile e perverso, in cerca di santità. Adios!
7 – RODNEY CROWELL – CLOSE TIES
Un nome leggendario del songwriting americano ritorna a livelli eccelsi. Il signore sa cosa significa scrivere canzoni. Lui incideva “americana” prima che esistesse l’etichetta ormai noiosamente abusata. Nel suo nuovo disco Rodeny Crowell mette in fila country e folk, soluzioni bluesy e vecchi suoni rock’n’roll con un gusto e una profondità sconosciuta. E si fa accompagnare da Rosanne Cash e Sheryl Crow (I’m Tied to Ya) in un terreno rigoglioso grazie a ballate come Nashville 1072 e I Don’t Care Anymore.
8 – JESSIE COLTER – THE PSALMS
La moglie di Waylon Jennings confeziona un disco importante mettendo voce e strumenti (per lo più il suo pianoforte) a disposizione dei Salmi biblici. Jessie (è lei l’autrice di I’m not Lisa….) si è fatta affiancare da Lenny Kaye (chitarrista e produttore di Patti Smith) per un disco unico, una prova coraggiosa di trasposizione di dodici salmi in musica. E’ un album di country-gospel, ma sembra un disco di musica sacra psichedelica e (nel cuore) lo è proprio.
9 – MAVERICKS – BRAND NEW DAY
Il ritorno di Raul Malo e compagni non delude. Soliti ingredienti tex-mex e frontiera, con un po’ di Caraibi a far da contorno. Damned if You Do è un capolavoro e la title track è trascinante davvero…
10 – CHRIS STAPLETON – FROM A ROOM, VOL 1
Il grande Chris nel 2017 ha sciorinato due album, From a Room vol 1 e vol 2. Stessi ingredienti, sincerità a bizzeffe, voce suprema, folk-rock con ispirazioni dal Kentucky al Texas, dignità springsteeniana, buona vena (non sempre, ma possiamo perdonarla). Broken Halos è il pezzo sovrano, ma il feeling di Without Your Love è difficile da dimenticare…
11 – SONNY LANDRETH – RECORDED LIVE IN LAFAYETTE
Uno dei più grandi chitarristi su piazza, finalmente in tutto il suo poderoso splendore live (meglio qui che nel live precedente, At the Jazz Fest). Nessuno come lui sulla slide (anche sopra Derek Trucks e Jack Pearson): basta sentire Key to the Highway e True Blue per rendersene conto.
12 – ROGER WATERS – IS THIS THE LIFE WE REALLY WANT?
Un ritorno che lascia il segno per Roger Waters. Almeno cinque canzoni importanti con il marchio di fabbrica pinkfloyidiano. La finta-suite finale (tre canzoni connesse come ai tempi di Animals) è perfetta. La voce e la visionaritetà (ormai abituale), anche. Waiting for Her potrebbe essere il pezzo migliore, ma non è detto…
13 – NITTY GRITTI DIRT BAND – LIVE CELEBRATING 50 YEARS
Una delle più grandi band della storia celebra con un live al Ryman di Nashville i suoi primi cinquant’anni di vita. Concerto stupendo per gente senza tempo e per i loro ospiti: Mr. Bojangles (con Jerry Jeff Walker), Will the Circle be Unbroken, Buy for Me The rain, Fishing in the Dark, You’re Goin’ Nowhere. Nostalgia canaglia…
14 – RHIANNON GIDDENS – FREEDOM HIGHWAY
Rhiannon ha voce, feeling, capacità di scrittura e intensità: cosa chiedere di più? Il nuovo album si apre con una convincente At the Purchaser’s Option e si chiude con un classico come Freedom Highway. We Could Fly è un capolavoro che sarebbe stato perfetto negli anni d’oro di sua maestà Joan Baez.
15 – MARTY STUART – WAY OUT WEST –
Odore di vento e di deserto per un cd che alterna canzoni a pezzi solo strumentali tex-mex. Marty Stuart produce un disco che è un film: Mojave è l’introduzione cinematografica perfetta, roba per cui Sergio Leone avrebbe fatto i salti mortali. Old Mexico è roba per amanti di Johnny Cash e Joe Ely mentre la strumentale Torpedo fa onore ad uno che frequenta abitualmente la Grand Ole Opry: complimenti.
16 – ROBERT RANDOLPH – GOT SOUL
Era il bambino prodigio della sacred steel guitar, è diventato un componente fisso del buon giro musicale dei jamming festival, spesso con la Tedeschi Trucks Band: Robert Randolph porta in scena e su disco una versione molto gospel del soul-rock e con questo disco conferma crescita e ottima vena: Be the Change, Love (do what i do) e Lovesick da sentire per credere…
17 – STEVIE WINWOOD – GREATEST HITS LIVE
Finisce al quindicesimo posto, ma poteva anche essere molto più in alto: il live di Winwood contiene tutto il meglio dei Traffic (John Barleycorn, Glad, Empty Pages, Dear Mr. Fantasy) e degli altri suoi periodi più creativi (I’m a Man, Give me Some Lovin, Can’t Find my Way Home, Dear Mr.Fantasy). Alcuni brani della sua produzione solista anni ’80 e ’90 edulcorano un poco una scaletta di classici.
18 – ELVIN BISHOP’S BIG FUN TRIO – BIG FUN TRIO
Da un po’ il buon Elvin Bishop (anima di questo trio) è tornato a frequentare il blues grezzo, quello puro da cui era partito lasciando l’Ohklahoma. Con questo “fun trio” raggiunge forse la forma più povera e originale.
19 – RICHARD DAWSON – PEASANTContinua il folle percorso di questo britannico che a volte viene associato a Cap. Beefheart per la sua insolita produzione. In realtà nelle sue visioni art-folk c’è una lucida sconclusionatezza, ed una proposta artistica complessiva che sa di arte britannica del Settecento. Nel nuovo disco non ci sono più le lunghe suite degli album precedenti, ma si confermano gli ingredienti che vanno verso il prog-psichedelico: Weaver è il brano più rappresentativo..
20 – RADIO MOSCOW- NEW BEGINNING
Hard-blues psichedelico con potenti bordate chitarristiche e viscerali quantitativi di space rock. Parker Griggs è chitarrista di qualità e inventiva: aggressivo l’inizio (titletrack), strepitosa la vetta esplosiva di Pick Up the Pieces. Hard and space rock for the future…
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