Sarà l’abitudine, sarà che qualcuno me lo chiede: in ogni caso ecco i miei dischi da non perdere del 2018 ormai prossimo al tramonto. Per mia incapacità a battere il passo sulla solita mattonella, non riesco ad inserire troppe cose che assomiglino a “compilation”, “raccolta di outtakes”, “prime, seconde e terze prove della tal canzone”, “raccolta delle raccolte”. Allo stesso modo non si trova alcuna traccia di nomi da classifica radiofonica: se ci fossero vorrebbe dire che qualcosa non funziona (o nelle classifiche o in chi qui scrive). Ma in ogni caso diciamola così: ho dato ascolto a circa 130 Cd dell’annata trascorsa, quelli su cui valeva la pena investire tempo e denaro. E questi sono i migliori venti. Quelli che mi hanno emozionato. Quelli che ho ascoltato e riascoltato ed ancora messo in automobile e sentito come sottofondo di ogni cosa. Onestamente i primissimi li ho sentito già un numero importante di volte. Buon ascolto e buon Anno!
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1 – DAN BAIRD AND HOMEMADE SIN – SCREAMER
Disco perfetto di puro rock sudista per il “vecchio” Dan Baird, leader dei Georgia Satellites e nomade del rock’n’roll. Il pezzo più forte, Good Problems to Have, è il classico brano da torrenziale end of the show, ma anche Something Better è un brano da sei minuti di fantastico deja-vu, esattamente quel suono sui soliti tre accordi che gli amanti del genere si aspettano, dagli Skynyrd alla Marshall Tucker Band. Something Like Love, Charmed Life, Bust your Heart e You’re Going Down ripropongono alla perfezione il suono che tra la Florida e la Georgia ha definito la leggenda e le immagini del southern rock. Enorme è il lavoro solista di Warner Hodges, per un disco che Dan Baird consegna per sempre agli amanti del southern e del rock’n’roll.
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2- SCOTT SHARRARD – SAVING GRACE
Difficile trovare un brano così potente e intenso come Saving Grace nell’anno che si va concludendo, ma tutto l’album dell’ultimo chitarrista di Gregg Allman è di qualità cristallina e di emozione vibrante. Si sente che Scott Sharrard è cresciuto con il sound di Muscle Shoals nelle vene, e lo ripropone da Sentimental Fool a Faith to Arise, da Keep me in Your Heart a Sweet Compromise. Il disco è impreziosito dalla presenza di Taj Mahal che interpreta Everything a Good Man Needs, uno shuffle che Scott ha scritto insieme proprio insieme a brother-Gregg.
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3 – MARCUS KING – CAROLINA CONFESSION
Conferma straordinaria per il giovanissimo chitarrista protetto e lanciato da Warren Haynes. Tutto il disco di Marcus King vive tra echi allmaniani e radici di southern soul e la qualità dei pezzi (oltre che delle chitarre) conferma che ci troviamo di fronte ad una realtà destinata a brillare per molto tempo. Confession è un’apertura da applausi e Goodbye Carolina è pura emozione in chiusura. Il resto (Homesick, How Long….) è piacevole e trascinante, con Side Door a confermare che il soul spira forte da queste parti.
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4 – THE GLOAMING – LIVE AT NHC
La formazione irlandese conferma con questo live di essere una punta di diamante universale. Nessuno come loro è in grado oggi di mettere insieme tradizione gaelica, ispirazioni classiche, punte di improvvisazione che non si sa dove situare, se tra il jazz o l’ambient, il minimalismo e la musica da camera. Il rapimento di Cucanandy e Fainleog (18 minuti) portano direttamente al cuore di un esperimento musicale che oggi non ha rivali e neppure imitazioni. Dietro a questo magico orizzonte ci stanno i violinisti Caoimhin O’Raghallaigh e Martin Hayes, il chitarrista Dennis Cahill, il vocalist Iarla Ó Lionáird, ed il pianista Thomas Bartlett. L’Irlanda lo considera un “supergruppo” perché i componenti vengono da decenni di produzioni importanti, spesso in collaborazione con la Real World di Peter Gabriel, che è stato il vero terreno di incontro delle loro vicende e visioni sonore. In ogni caso oggi nessuno era arrivato a mettere a punto un sound così contemporaneamente colto e magico.
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5 – PARKER MILLSAP – OTHER ARRENGEMENTS
La sua Your Water è tra le più belle canzoni dell’anno e questo basta al giovanotto dell’Oklahoma per entrare nei vertici alti della sintesi dell’annata. Visto anche in concerto non delude per niente: è molto meno “copia di Jason Isbell” di quello che si potrebbe immaginare. Chitarre, violino, rock e folk in parti eguali per Parker Millsap e compagni. I pezzi sono tutti brevi, fedeli all’idea di “fare tutto in un paio di minuti”. Ma Let a Little Light I (tra Beatles e Beck) e la dolcissima She ricordano che non serve tantissimo per farsi amare…
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6 – JOHN PRINE – THE TREE OF FORGIVENESS
“Now I lay me down to sleep-I pray the Lord my soul to keep-If I should die before I wake-I pray the Lord my soul to take”: il nuovo disco dell’immortale John Prine ha dentro autentiche gemme come God Only Knows. Al lavoro sulle dieci tracce ci sono Phil Spector e Iason Isbell, Amanda Shires e Dan Auerbach (Black Keys) che offrono al folksinger dell’Illinois un valido supporto come autori e strumentisti. L’atmosfera si fa nera e glaciale in Caravan of Fools, mentre When I Get to Heaven fa il verso al giorno del giudizio. Un disco che per Prine potrebbe apparire come gli American Recordings di Johnny Cash…
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7 – VICTOR WAINWRIGHT AND THE TRAIN –
Con il pianoforte si può fare di tutto, incidere blues e rhythm’n’blues, honky tonk e grandi ballad. Seguendo (ma non troppo) la strada di Dr. John, Victor Wainwright sa come si prende per la gola chi ascolta e si fa pure circondare da una band con i fiocchi. Così Healing diventa un pezzo capolavoro e tutto il resto gli gira magnificamente intorno. Centotrenta chili di ottima musica: un nome da seguire anche per il futuro (con la sua band: The Train è un ottimo combo con ottoni in bella vista), visto che uno che cresce in una famiglia di bluesman frequentata da Pinetop Perkins può avere ottime carte da giocare….
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8 – MARY GAUTHIER – RIFLES AND ROSARY BEAD
Il lavoro più emozionante della folksinger americana (con il contributo prezioso di MICHELE GAZICH) la porta meritatamente diritta nelle nomination per i Grammy. La storia dell’album è unica e irripetibile: i testi arrivano dalle storie di veterani americani dalle zone di guerra e raccontano di dolori, angoscie e speranze, raccolte da Mary Gauthier con una sensibilità inarrivabile. Voce, chitarra, violino, armonica: la musica nella sua essenza. The War After the War, Stronger Together e l’emozionante It’s Her Love rimettono le cose del mondo sul palcoscenico dell’amore e del dolore. E chiedono solo la partecipazione del cuore.
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9 – SHEMEKIA COPELAND – AMERICA’S CHILD
Forse la migliore vocalist blues della sua generazione, Shemekia Copeland (figlia di grande padre texano) è sicuramente un nome affidabile del blues contemporaneo. Più volte indicata come autentica erede di sua maestà Koko Taylor (anche se solo il destino ci ha tolto la fulgida e crescente grandezza di Valerie Wellington, scomparsa oltre 20anni fa), Shemekia anche con questo album mostra una presenza e una varietà interpretativa confortanti e coinvolgenti, a partire da Ain’t Got Time for Hate.
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10 – NATHANIEL RATELIFFE AND THE NIGHT SWEATS – TEARING AT THE SEAMS
La qualità musicale di Nathaniel Rateliffe è ormai una realtà: chi l’ha scoperto con il primo album e con l’improvviso live, ha avuto il tempo quest’anno di comprenderne la traiettoria. E’ chiaro che dopo Sturgill Simpson la contaminazione tra folk e rhytmh’nblues, tra country ed “americana” è la vera cifra di una serie di artisti e tra questi Nathaniel è uno dei leader. Ha 40 anni ed una vita artistica relativamente recente, ma la scrittura che si dimostra in brani come Babe I Know oppure Shoe Boot è di enorme visione e respiro, inglobando le lezioni di Robbie Robertson e dei Little Feat in eguale misura. Dimenticavo: Babe I Lost My Way (But I’m Going Home) assapora così tanto di anni Cinquanta da lasciare senza fiato….
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11 – MIKE FARRIS – SILVER AND STONE
Da quando ha deciso di lasciare gli Screaming Cheetah Wheelies (southern rock band pazzesca che ha messo la firma su Ride the Tide, Shaking the Blues e Leave your Pride, tanto per dirne alcune….), Mike Farris l’ha fatto soprattutto per fermare il suo meccanismo autodistruttivo. La stessa cosa che ha fatto Jason Isbell quando ha staccato la sua spina dai Drive By Truckers. Farris, ripulito e rimesso in sesto anche grazie ad una conversione religiosa, sta dando vita ad una delle più interessanti esperienze di soul-blues degli USA. Il nuovo disco (con ospiti stellari), fa faville: Movin’ Me è intensa e fremente anche grazie ad un bel solo di Joe Bonamassa; le cover (Are you lonely for me baby, Hope She’ll Be Happier, I’ll Come Running Back to You) dimostrano che il cuore di Farris batte con Aretha Franklin e Al Green, con Sam Cooke e Curtis Mayfield.
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12 – BLACKBERRY SMOKE-FIND A LIGHT
La band georgiana continua a non deludere, dimostrando una maggior coerenza e longevità di altre band sudiste nate a fine degli anni ’90. Le chitarre e il rock sono sempre gli stessi ingredienti, capaci di veleggiare tra il blues e lo Skynyrd’s sound, tra Tom Petty e il boogie. La vetta del disco è I’ll Keep Ramblin’, registrata con Robert Randolph, una arrembante ascesa nel ritmo e nei duetti delle (diverse) sei corde elettriche. Sudiste al midollo sono l’ottima ballad Till the Wheels Fall Off, la ribellistica The Crooked Kind, e Medicate My Mind, mentre Flesh and Bone è una bordata di elettricità e potenza ritmica. Il disco di Charlie Starr e compagni non è solo roboante di rock, perché ci sono cenni di Eagles (Seems so Far) e armonie vocali che ricordano CSNY, ma il finale acustico di Mother Mountain (con reminiscenze da folk psichedelico che occhieggiano anche i Led Zeppelin) e il country di Let Me Down Easy sono ossigeno puro.
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13 – RY COODER – PRODIGAL SON
Dando per scontato (brutto da dire) che il 71enne Ryland non sia in grado di fare “brutti dischi”, c’è da ammettere ancora una volta che Cooder non delude, non esce mai dal seminato, non tradisce. In un disco da apocalisse in cui tutto ruota attorno alla lotta bene-male, peccato-santità, Ry condensa una sorta di riflessione gospel-blues sull’epoca odierna fatta di riletture di brani più o meno famosi, proposta con la solita inarrivabile qualità produttiva. Lo si capisce sin dal primo brano dell’album (Straight Street) che potrebbe far tranquillamente parte del periodo di Paradise at Lunch; sul resto si eleva l’incredibile versione di Nobody Fault but Mine (Blind Willie Johnson) ed anche la nuova Jesus and Woody, dialogo sul presente tra il Figlio e il grande folksinger.
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14 – BIG BIG TRAIN – MERCHANTS OF LIGHT
Il polistrumentista Gregory Spawton guida da oltre venticinque anni questa formazione di prog-britannico che ha pubblicato nel 2018 il suo secondo ottimo live, Merchants of Light. La formazione attuale dei Big Big Train vede Nick D’Virgilio (drums, ha militato nei Genesis), David Longdon (vocals e strumenti vari), l’ottimo Rjkard Sjoblom (guitars), Rachel Hall (violino) e Dave Gregory, entrato in formazione da quattro dischi, a lungo il chitarrista degli XTC di Andy Partridge e Colin Moulding. Nel nuovo live ascoltare Victorian Brickwork è una bellissima esperienza sonora ed emotiva. Anch’essa lunghissima, East Coast Racer conduce invece sui sentieri criptici dei Van Der Graaf, ma conferma che la band di Bournemouth ha idee chiare sulla propria capacità di prolungare il discorso del progressive ben oltre l’età anagrafica dei padri fondatori.
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15 – WILD FEATHERS – GREETINGS FROM THE NEON FRONTIER
Un po’ Band, un poco Jayhawks oppure (volendo) Eagles, i giovanissimi Wild Feathers sono una delle più belle produzioni emergenti dell’immensa America. Cresciuti a Nashville, già apprezzati da Willie Nelson arrivano alla maturità con questo terzo album in cui No Man’s Land è sicuramente il brano più importante e ricco, seguito da Big Sky (con echi di CSN&Y e America) e Wildfire dove il Glenn Frey-Don Henley di Tequila Sunrise dimostra di aver lasciato il segno.
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16 – BLUES TRAVELER – HURRY UP AND HANG AROUND
Finalmente un discone per Popper e Kinchla. A partire da Accelerated Nation la jamming band più sudista (non a caso la collaborazione con Gregg Allman nella mitica Mountain Cry) ritrova il bandolo dopo qualche anno di incertezze. L”insieme suona forte e trascinante come ai tempi dei tour HORDE…
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17 – GURU GURU – ROTATE!
Una formazione di krautrock considerata “minore” ma che ha mantenuto alta la tensione è quella dei Guru Guru di Mani Neumaier. Sempre on stage dalle parti della Germania, è merito di Mani se il Finkenbach Festival è rimasto stabile negli anni, con nomi come Amon Duul II, Faust ed Embryo come protagonisti. Questo Rotate! è un ritorno in studio dopo qualche anno ed è un prodotto importante: ascoltare I Missed So Many Shootingstar per convincersi….
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18 – SOFT MACHINE – HIDDEN DETAILS
Un bel ritorno 37 anni dopo: i Soft Machine oggi sono John Marshall (batteria), Roy Babbington (basso), John Etheridge (chitarre) e Theo Travis e ci regalano un notevole esercizio di jazz-rock sperimentale con un paio di riletture di brani dal catalogo. In tutto il lavoro la chitarra di Etheridge occupa importanti spazi del discorso, che riprende il filo del discorso tra sperimentalità fusion e ritmiche incalzanti. Le migliori? The Man who Waved at Trains (rilettura tratta da Bundles), Life on Bridges, Fourteen Hour Dream, Breath e Flight of the Jet. Ben fatto.
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19 – ERIK STECKEL – POLYPHONIC PRAYER
Il chitarrista della Florida è cresciuto, anche in qualità compositiva. Ed Erick Steckel lo dimostra in un mostruoso blues lento come We Are Still Friends, dove le doti virtuosistiche (giù il cappello) sono messe a frutto di un’atmosfera che è governata da un B3. Through Your Eyes conferma che anche nel suo caso è il soul-blues il vero riferimento, a prescindere dalla solita, vecchia e inutile questione: “è forse nato un nuovo Stevie Ray?”
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20 – MATT ANDERSEN AND THE MELLOTONES – LIVE AT OLYMPIC HALL
L’enorme Matt Andersen, chitarrista canadese, arriva al suo primo live ufficiale dopo una decina di dischi (tra autoprodotti e ufficiali), mettendo insieme un bel pubblico e una reputazione di gran performer. L’autoironica Weightless e la poderosa Devils Bride sono l’alfa e l’omega della sua setlist, dove il rhythm’n’blues la fa da padrone (come dimostra la versione di Going Down) e il romanticismo del rock’n’roll offre vene sognanti. Sentire My Last Day e pensare agli anni d’oro di Bob Seger è quasi automatico….