La scontata tiritera di ogni anniversario, la retorica noiosa di tutte le celebrazioni: alla larga. Il 4 ottobre del 1970 Janis Joplin s’è iniettata una dose di eroina pura nella sua stanza del Landmark Motor Hotel e non ha più riaperto gli occhi. Janis stava vivendo una stagione felice dal punto di vista musicale e anche sentimentale, innamorata follemente di Seth Morgan, poeta e scrittore di belle speranze. Tutti la volevano sul palco, volevano vederla cantare, volevano sentirla sviscerare le mille sfumature della passione, dell’amore cercato infinitamente, tra pillole e bottiglie di Southern comfort, tra letti occasionali e siringhe infette. Tutti, in quella stagione folle e balorda, volevano vederla “sballataâ€, “fattaâ€, perché lei era il simbolo di quella vita senza regola alcuna, la bandiera di una vita oltre il limite, che respirava gli eccessi. E’ morta a ventisette anni, poche settimane dopo Jimi Hendrix. Lui è stato il chitarrista della rivoluzione rock, lei è stata la voce assoluta dello struggimento blues.
Da quando ascolto Janis Joplin, c’è una parte più o meno profonda e nascosta del mio cuore che si commuove di tristezza e di affetto: non ho mai sentito un canto (o un patimento) come il suo. Guardo le sue foto e mi sembra di conoscerla da sempre (anche se – come ho già detto da qualche aprte – quando lei è morta ero solo un bambinetto con i pantaloni corti). Janis era una ragazza texana, nata a Porth Arthur nel 1943. Aveva una fame quasi atavica di affetto fin da bambina, quando non gli bastavano mai gli abbracci di sua madre (che lavorava nella dirigenza di un college) e di suo padre (ingegnere in un’industria petrolifera: il Texas è terra di pozzi e trivelle, come ha mostrato al mondo la famiglia Bush). Questo desiderio d’amore la portò ad essere sempre dolce e scontrosa, cercatrice di uomini e violentemente bizzarra, tenacemente affamata e disperatamente sola. Mentre i suoi coetanei si facevano belli a scuola lei già inseguiva il blues di Odetta e Big Mama Thorton, iniziandosi all’alcool e alle canne.
A venti anni era già a San Francisco, spezzando acidamente il rapporto con madre e padre, dove cantava i blues insieme a Jorma Kaukonen, che farà la storia del rock californiano con i Jefferson Airplane: da lì, anno ’63, ha iniziato a lasciare il segno sulla musica dei nostri tempi. Prima con la sua band d’esordio, The Big Brother and the holding company, un gruppo psichedelico di musicisti appena sufficienti (le due chitarre di James Gurley e Sam Andrew appaiono oggi al massimo ricche di buona volontà …) che fu soprattutto il terreno di fioritura della voce di Janis e delle sue interpretazioni emozionanti: l’immensa versione di Summertime, la dolente Ball and chain, l’indimenticabile Cry baby. E su tutte il pezzo con cui è passata alla storia, Piece of my heart, una canzone che potrebbe essere portata a simbolo (insieme a With a little help from my friends nella versione di Joe Cocker) di cosa significa “interpretare il rockâ€; cioè dargli carne, spirito, umanità .
Affamata e docile, scostante e testarda, intrattabile e convinta, Janis sapeva che era fatta per la musica e che a tutti avrebbe portato la forza dei suoi blues. Per questo nel giro di tre anni – dal ’67 al 70 – la cantante smontò e rivoltò come un calzino le sue band. Se ne andò dai Big Brother per fondare la Kozmic blues, la formazione con cui si presentò in condizioni pietose al festival di Woodstock (la sua biografa Myra Friedman in Buried alive in the blues, scriverà : “Al festival Janis fu mediocre e i suoi accompagnatori pessimiâ€).
Poi, non contenta e ormai sempre desiderosa di correre più avanti del già raggiunto, sciolse pure questa per dar vita alla Full tilt boogie band, gruppo decisamente rhyhtm’n’blues con cui incise la canzoni che entreranno a far parte del bellissimo Pearl (uscito nel febbraio del 71). Nel frattempo fu portata sette volte in rianimazione per overdose, entrò e uscì dai letti di centinaia di ragazzi più o meno occasionali, cercò di affrancarsi dalla dipendenza dall’alcool, tornò nella sua città natale in Texas con il risultato di litigare nuovamente con la famiglia (con cui aveva rapporti orrendi), fece due volte testamento (a 25 e 26 anni). E cantava sempre, con una voce (a volte fastidiosa) che veniva dal vertice della sua fame di amore: “prendi un altro pezzo del mio cuoreâ€, per la necessità esageratamente fisica di essere apprezzata, d’essere amata, d’essere considerata unica.
Nell’estate del ’70 Janis era “pulitaâ€: da mesi non assumeva droghe pesanti. Il periodo fecondo con la Full tilt boogie band e l’amore per Seth (che finirà schiantato in moto nel 1990, completamente fatto di cocaina e alcool) avevano dato un briciolo di stabilità , ma poi – a fine settembre – la dipendenza (prima psichica che metabolica) s’era fatta sentire e Janis si era rifornita massicciamente di eroina da Peggy Caserta, tossicomane e pusher di lusso, amica intima della cantante. Il 1 ottobre la Joplin aveva inciso una canzone per sola voce, Mercedes Benz, e un breve divertissment, Happy trails, regalo di compleanno per John Lennon (quest’ultima fu inviata a Lennon, che la riceverà a New York “solo†il 7 ottobre). Ma alle 1.30 del 4 ottobre 1970, Janis fu stroncata da un overdose nella sua camera al Landmark Motor Hotel di Los Angeles: l’eroina e l’alcool si erano presi la loro vittoria.
Dal 67 al 70 Janis ha inciso quattro soli album: Big Brother and the holding company, Cheap Thrills, I Got Dem Ol’ Kozmic Blues Again Mama! e Pearl. Ha lasciato un’eredità di canzoni e interpretazioni “quantitativamente†poco rilevante, per nulla conosciute dai più giovani e spesso ascoltate con un certo fastidio, perché nel suo respiro e nella sua voce roca ci sono forse pochi elementi di quella raffinatezza superficiale a cui ci ha abituato il pop plastificato d’oggigiorno.
Ma Janis non è roba di plastica, ma una donna vera sino ad innamorare ancora oggi, quando accade di guardarla in quelle foto in cui alterna altezzosità e timidezza indifesa. Fosse ancora viva ci sarebbe da prenderla a schiaffi e da dirle “smettila: così ti distruggiâ€, come ebbe a fare il suo manager Albert Grossman. Invece non è possibile farlo. Quel che rimane, sicuramente in me, è quella sua forza di passione e di sentimento travolgente, tasselli di un puzzle misterioso in cui autodistruzione e umanità viscerale si sono composte in modo forse incomprensibile.
Cosa cantava Janis? Per chi cantava? Dove si dirigeva? Che amore cercava? Cosa le avrebbe dato pace? Quale amore avrebbe potuto riempire un cuore così vorace? Difficile, forse, rispondere. Ma, comunque, difficile ascoltarla senza ricordarla per sempre.
Walter Gatti