La critica e la pubblicistica musicale nostrana fanno un errore imperdonabile, anche quando sono “colteâ€: non riescono a collegare il particolare con il tutto. La musica con il resto della vita e della cultura. L’oggi con il prima, con il durante, con l’intorno. Diversamente da questo atteggiamento miope e sostanzialmente zoppo (perché di sguardo e camino si tratta, prima ancora che di ascolto), Francesco Giardinazzo ne La culla di Dioniso (Marietti 1820), cerca un’altra visuale. Docente di teoria letteraria all’università di Bologna e ricercatore di poesia dantesca, oltreché docente al Centro internazionale della Canzone d’Autore (fondato da Lucio Dalla e Davide Rondoni), Giardinazzo scrive di musica come potrebbe scrivere di ermeneutica o di filologia: con piglio accademico e vigore esistenziale. Il suo libro non è un titolo da fans dei Tokyo Hotel non per i personaggi citati, bensì per l’approccio: tentare di connettere artisti e vocazioni musicali con il seme profondo della ricerca culturale.
E quindi: di che si parla nella Culla? Degli infiniti interscambi tra poesia e musica pop, tra cultura e canzonetta. A partire da una ricerca culturale “aperta†si scoprono così miriadi di nessi: dall’aspra definizione socio-politica pasoliniana (“si può dire che l’odierna canzonetta non sia che un aspetto della diffusione ideologica della classe dominante sulla classe dominataâ€; pag 105) a cui non è estranea l’influenza di Adorno, alle connessioni tra il Rilke dei Sonetti a Orfeo – “Vero canto è un altro alito, un alito che tende a nulla. Uno spirare del Dio. Un vento†e il Dylan di Blowing in the wind: “in qualche modo Rilke e Bob Dylan la pensano allo stesso modo†(pag. 21); per arrivare poi all’â€elogio della cattiva musica†o all’intuizione terribile ancora di Pasolini nei Saggi sulla politica e sulla società : “in Italia anche la protesta è conformistaâ€, mentre “non c’è nulla di più bello che inventare di giorno in giorno il linguaggio della protestaâ€, paragrafo che Giardinazzo termina con la domanda da cento milioni: “Ci sono (ci siamo) riusciti?†(pag 140).
Di chi si parla in questo escursus mozzafiato? Di Elvis e dei King Crimson, di Euripide e di Vinicius de Moraes, di Luigi Nono e di Paul Valery. Ma soprattutto di Demetrio Stratos, degli Area e di Vinicio Capossela, cioè di momenti precisi della canzone italiana, cioè della (forse) massima sperimentazione italiana e del tentativo estremo di trovare nel viaggio la risorsa per il canto. Da un lato lo Stratos (scomparso nell’estate del 1979 e avremo modo per ricordarlo anche qui….) che prende le mosse dalla ricerca musical-anarchica più estrema per cercare una strada in cui il cantante perde la parola per confrontarsi con il “suono originaleâ€. Dall’altro Capossela “i cui racconti e canzoni sono vere e proprie rapsodromie, avventure cucite da musiche e parole†(pag 146), un autore che arriva in Ovunque proteggi a “un incontro con il Sacro apprezzabile nella sua dismisuraâ€. Due esempi di avventura prima di tutto umana e solo “dopo†artistica e in quanto tali approfonditi dall’autore per la loro forza, nascosta o manifesta, di simbolicità a fronte di tanta musica non necessariamente cattiva, ma certamente inutile.
Per nostra fortuna il taglio accademico non corrisponde all’inaccessibilità di certi pseudo-pensatori incomprensibili pure a se stessi: il libro si legge, eccome! Ed è fecondo di intuizioni non-politicamente corrette, toccasana per ogni intelligenza non assuefatta ai clichè. Una su tutte: quella secondo cui (partendo dal Proust de I piaceri e i giorni) “Max Pezzali è forse per la sua generazione quello che per noi è stato Fabrizio De André. E in un futuro ci sarà certamente chi riconoscerà in Laura Pausini o in Samuele Bersani un punto di riferimento di questi anni†(pag 31-32). Grande Giardinazzo!Â
Walter Gatti