UNA COLOSSALE RICARICA DI ENERGIA: BLACK CROWES LIVE

Di Walter Gatti

Tanti anni a sentirli e vederli on stage (tra l’Italia e l’Europa: nel 1995 avevo seguito in Germania, Francia e Austria il tour che li vedeva insieme a Rod Stewart, Elton John Sheryl Crow ed anche Eros Ramazzotti, da cui l’amicizia con Phil Palmer….) e poi un mucchio di altri anni a chiedersi se li avremmo visti ancora sul palco. E per fortuna eccoli lì, sulla scena degli Arcimboldi, rumorosi, vigorosi e sudisti come prima, più di prima. E finanche più maturi di prima: ecco i nuovi Black Crowes, con Chris Robinson che prende il microfono e dice “ehi cosa fate li seduti? questo è un rock’n’roll show, stand up”, e poi manda a quel paese due che in prima fila sono rimasti accomodati finché pure questi non alzano le chiappe….
Eccoli: i Black Crowes, da Atlanta-Georgia (città di Allman Brothers-si vabbé Macon è a due passi – Georgia Satellites, Atlanta Rhythm Section-che poi è di Doraville – e Blackberry Smoke….) che ritornano fragorosamente tra noi un milione di anni e di litigi dopo il 2015, anno che pareva proprio il capolinea di una delle southern rock band più fulgide dell’universo dixie. Eccoli entrare in scena in una sorta di palco-circo, in cui mille vecchi amplificatori (Marshall, Big Ugly e Fender) ricreano una scena da carrozzone rock che fa subito pensare (in orizzontale invece che in verticale) al Wall of Sound di Jerry Garcia e Dead. E appena si accendono le macchine e si alzano i volumi si capisce che gli anni sono serviti per una maturità raggiunta e stupendamente proposta al pubblico pagante.

Diciassette pezzi, pescando da tutta la discografia, ma soprattutto saccheggiando i primi tre poderosi album (Shake Your Money Maker, Southern Harmony e Amorica) e pressochè ignorando i dischi del primo decennio del Duemila, soprattutto quel Before the Frost buon disco che però aveva portato alla crisi finale (del tipo: “qui comando io!”, “e no fratellino, non se ne parla…!”).
All’agenda della serata vanno aggiunti i brani dal nuovo Happines Bastards (l’attacco è per Beside Manners e Dirty Cold Sun) e due citazioni nobili, quelle per High School Confidential di Jerry “the killer” Lee Lewis e la poderosa Hard to Handle di Otis Redding (“e ora un pezzo del più grande soulman della storia: che cosa mi guardate a fare, non sono io, è Otis Redding”), che era già sul secondo disco della band.
Il ritmo, i volumi ed il “tiro” della serata sono pazzeschi, senza un solo attimo di sosta, con Rich che cambia una chitarra ad ogni pezzo (Telecaster, Getsch, ES335, Richenbacker….), con il nuovo chitarrista argentino Nico Bereciartua che è perfettamente a suo agio sia con la slide che senza (e che pare oggi perfetto per il classico format delle due chitarre soliste marchio di fabbrica del southern rock), con il tastierista Erik Deutsch (uno che ha fatto anni a spasso con Shooter Jennings e Leftover Salmon) appollaiato in cima alla scena a legare tutto l’insieme con ottima qualità. E così senza fiato e senza tregua i fratellini ci propongono Twice as Hard, Gone, Jealous Again, l’inarrivabile She Talk To Angels, Thorn in my pride (con la solita armonica a metà di un pezzo sudistissimo che vive di accelerazioni e di furbissimi rallentamenti blues) fino ad arrivare al finalone con Remedy, febbricitante e definitiva. E poi chiudere con God’s Got It, scampolo di gospel di quel Warpaint realizzato con Luther Dickinson e sotto l’influenza dei North Mississippi Allstar.

Dicevo: sembrano più maturi, più sicuri, meno sbronzi, meno litigiosi.
A dirla tutta: mai visti così “quadrati” e poderosi. Certo i Black Crowes vivono in un limbo i cui numi tutelari sono gli Stones e i Lynyrd Skynyrd, ma in cui sprazzi di Led Zeppelin (da ricordare lo stretto legame con Jimmy Page, nonché i concerti ed il Live at the Greek inciso con lui nel 2000) e di southern-soul vengono fuori ripetutamente.
Fedele a se stesso, Chris Robinson (in doppiopetto gessato bordeaux) oscilla tra Mick Jagger e Jimmy Hall, l’eccezionale vocalist dei Wet Willie. Dal canto suo Rick Robinson tratta le sue chitarre con fantastica versatilità, con un sound ricco di influenze dove ogni tanto sembra saltino fuori il suggerimento di Stephen Stills, l’occhiolino di Page ed il fantasma di Gary Rossington (di cui – sempre pensato – mantiene la presenza scenica).
Il prodotto di tutto questo sbattersi è uno spettacolo potente, sfiancante, illuminante, trascinante, inebriante, vigoroso e contagioso: è autentico e infinito southern rock, cioè uno di quei concerti che ti rappacificano con tutto, che ti fanno tornare a casa ottimista e che pure il giorno dopo influiscono sulle cose della vita quotidiana, come le tasse da pagare.
Oggi i Black Crowes sono proprio i “bastardi della felicità”, quell’auto-intestazione che hanno voluto per il nuovo disco, e che conferma che loro, i fratelli Robinson, ci sono e hanno ancora elettricità da offrire a tutte le nostre sfigatissime batterie da ricaricare.
NB: Sarà una bella sfida, il prossimo ottobre, rivedere in Italia i Blackberry Smoke (che purtroppo non dovrebbero avere gli Steel Woods come apertura di serata: Wes Bayliss ha comunicato che la band si scioglie, evidentemente la scomparsa di Jason Cope tre anni fa non è stata ancora “superata”…)e cercare di comprendere quali possono essere oggi le eventuali “gerarchie” del southern rock, ma dopo aver visto tre mesi fa a Milano i Gov’t Mule si può anche dire che il genere non vive un brutto periodo. Peccato solamente per gli ZZTOP che vengono in Europa, ma che l’Italia non la vedono più….

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