Nick Cave live a Lucca

Piazza Napoleone, Lucca, 17 luglio. Alle ore 21:02 sale sul palco del Lucca Summer Festival Nick Cave anticipato di qualche secondo da Colin Greenwood.
La serata è sold out da mesi, la piazza quindi è ovviamente caotica ed affollata in una serata caldissima ma che tutti attendiamo da tempo. Inizia subito uno dei più bei concerti che ho visto negli ultimi anni. Nick Cave è vestito di nero, camicia e calzini bianchi, cravatta, scarpe lucide, alto ed asciutto come sempre, impeccabile nella sua capigliatura corvina. Saluta il pubblico, la città, l’Italia dove gli piace venire a fare i suoi concerti, camminare per strade antiche e mangiare ottimo cibo: ci accorgiamo subito che ha voglia di parlare, interagire con la gente, introdurre le canzoni. Così farà dalla iniziale Girl in Amber fino alla sua amata Into my Arms con la quale chiude il concerto dopo oltre due ore: ci racconta da quale album arriva la canzone, se vecchia o fresca di stampa, di che umore era quando l’ha scritta e riesce ad essere divertente e sorridente anche quando presenta canzoni tristi se non drammatiche che, come sappiamo, sono la maggior parte.
Inizia così la serata con una canzone che proviene da Skeleton Tree (2016) e che affronta il dolore di una persona immobile nel proprio dolore come imbalsamata nell’ambra: la canzone è dedicata a sua moglie Susie ed al lutto che ha colpito la sua famiglia dopo la morte del figlio Arthur. Cave si siede al pianoforte, aggiusta un foglio con le parole della canzone ed inizia a cantare con il supporto del basso di Greenwood:
   Some go and some stay behind,
   Some never move at all,
   Girl in amber trapped forever, spinning down the hall

Si intuisce subito che Cave è in piena forma, si sente a suo agio in questa configurazione minimale dove, praticamente da solo, gestisce il palco, il pubblico, il fluire delle canzoni che iniziano con una breve spiegazione e si chiudono con il lancio all’indietro del foglio del testo, come a dire “anche questa è fatta!”.
Segue Higgs Boson Blues da Push the Sky Away (2013) che io ricordo nella magnifica interpretazione dal vivo presente su Live from KCRW dello stesso anno: onirica, strampalata, visionaria come l’ho raccontata in occasione della morte di Peter Higgs su queste pagine lo scorso anno. Basta una sola nota del pianoforte perché tutti riconoscano la successiva canzone, Jesus of the Moon da Dig, Lazarus, Dig!!! (2008): ancora una canzone sul dolore e la speranza di trovare una luce (Gesù) riflessa da qualcosa di lontano (Luna) ma disponibile per tutti noi. Cave torna a parlare della sua famiglia e dell’attenzione che ha sempre avuto per i suoi figli, osservando i quali scrisse O Children presente in Abattoir Blues/The Lyre of Orpheus (2004), descrivendo purtroppo un mondo oscuro e malinconico governato da persone misteriose e cattive. Dall’ultimo lavoro Wild Gold (2024) invece arriva la successiva Cinnamon Horses dove Cave elabora uno dei suoi frequenti scenari poetici dove la natura e l’uomo si confrontano su un terreno malinconico. Da Ghosteen (2019) proviene invece la successiva Galleon Ship magnificamente interpretata dal vivo anche in Australian Carnage (2023): nuovamente una metafora del viaggio dell’uomo tra mille difficoltà. Si torna indietro nel tempo a Skeleton Tree con la successiva I Need You, canzone d’amore verso una trasfigurata amante in vestito rosso, per rimbalzare ancora in avanti nel tempo con Waiting for You sempre sul tema della relazione amorosa complicata ma inossidabile al passare del tempo. Per introdurre la successiva canzone presente nell’ultimo recente album, Cave ci parla di questa magnifica piccola parola che però ha tanto valore in sole tre lettere: parte così Joy che cerca di descrivere la potenza della gioia che spesso nasce dalla sofferenza e dalle perdite. Da molto lontano, l’album Henry’s Dream è del 1992, arriva invece la successiva canzone Papa Won’t Leave You, Henry che appartiene al periodo di scrittura lugubre, pseudo-religiosa e drammatica di Nick Cave. Per introdurre la successiva canzone Cave ci spiega cosa sia una balconata, facendo anche riferimento a quelle dell’Arena di Verona dove ha suonato qualche anno prima e prega il pubblico di fare il matto e urlare tutte le volte che lui pronuncerà questa parola nella canzone: Balcony Man da Carnage (2023) è stata scritta durante il COVID e riflette sull’osservazione distaccata del dolore e delle vicende della vita come è capitato a tutti noi durante la pandemia. Ancora un tema estremo e drammatico per la successiva The Mercy Seat, “canzone molto, molto, molto vecchia” ci anticipa Cave: infatti viene da Tender Prey (1988) e racconta di un uomo condannato a morte che riflette sulle sue paure e sulla redenzione. Dello stesso periodo la successiva canzone, anch’essa riconosciuta sin dalle prime note del pianoforte: si tratta di The Ship Song da The Good Song (1990), complessa e metaforica canzone a soggetto marinaresco per andare comunque ad esplorare i temi cari a Cave della fragilità umana, dell’amore, della morte e della religione. Arriva la prima delle due cover della serata: si tratta di Avalanche, che Leonard Cohen scrisse nel 1971, che parla di un amore maledetto e rientra benissimo nello stile di Nick Cave. Ottimo il collegamento con la successiva canzone The Weeping Song ancora da the Good Song, scritta da Cave durante la sua permanenza in Brasile: si parla ancora di dolore ma anche di liberazione dallo stesso, passaggi perfettamente espressi dalla incessante ripetizione dei due versi “This is a weeping song” seguito da “But I won’t be weeping long“. Cave ci avverte che ci stiamo velocemente avvicinando alla fine del concerto con un paio di bellissime canzoni cantate da tutto il pubblico. Si tratta di Jubilee Street e Push the Sky Away entrambe dall’abum Push the Sky Away del 2013. La prima racconta la triste storia di Bee che vive, lavora e muore nella citata strada di Brighton (dove Cave ha abitato con la moglie) mentre la seconda cerca di affrontare il problema delle relazioni fra persone. Piccola pausa e Cave e Greenwood rientrano in scena per interpretare More News From Nowhere da Dig, Lazarus, Dig!!! dove si parla della ricerca della verità come una odissea e Skeleton Tree dall’omonimo album incentrato sul dolore della perdita del figlio. Il concerto prosegue con la seconda cover, Cosmic Dancer scritta da Mark Bolton dei TRex nel 1971 dove il ballo diventa la metafora della vita. Nick Cave avverte che ora siamo veramente arrivati alla fine della serata e, come da tradizione, questa viene affidata a Into my Arms, canzone proveniente da The Boatman’s Call. Sin dalla prima strofa “I don’t believe in an interventionist God”, la canzone mostra il suo tono intimo, melanconico e con il ritornello il senso di protezione rivolto alla sua amata ma anche di fiducia quando recita “But I believe in love, And I know that you do too”. Nonostante questa particolare cadenza, la canzone diventa collettiva, tutti la cantiamo e la sentiamo nostra con un livello emotivo che è cresciuto durante tutto il concerto fino all’apice di questo magnifico finale.

Davide Palummo, luglio 2025

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